“L’Italia è un Paese pericolosamente incline al complottismo, alla dietrologia, alla misteriologia dai tratti superstiziosi. La schiera dei sospettosi, degli uomini saggi che non la bevono, teorizzati da Giuseppe Prezzolini, s’infittisce di giorno in giorno. Il cospirazionismo è una forma culturale di massa, sinuosa e pervicace, è un esercizio mentale diffusissimo. Il maniaco delle trame è ormai un tipo umano estremamente comune”.
È quanto si legge nel libro Congiure e complotti – Da Machiavelli a Beppe Grillo, pubblicato di recente da Rubbettino e curato da Alessandro Campi (Catanzaro, 1961), docente di Storia delle dottrine politiche, Scienza politica e Relazioni internazionali all’Università di Perugia e Leonardo Varasano (Perugia, 1978), giornalista pubblicista, che ha conseguito nel 2007 il dottorato di ricerca in Storia politica contemporanea presso l’Università di Bologna e che collabora con la cattedra diStoria delle dottrine politiche all’Università di Perugia.
Poco meno di 230 pagine che raccolgono contributi di Raoul Girardet (storico francese. 1917-2013),Richard Hofstadter (intellettuale statunitense, 1916- 1970), Roberto Valle (docente di Storia dell’Europa orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma), Valter Coralluzzo (professore associato di Scienza Politica all’Università di Torino) e dei due curatori. Un testo dedicato ad Umberto Eco, che al complottismo aveva dedicato due dei suoi libri più famosi: Il pendolo di Foucault e Il cimitero di Praga.
A sentire Campi, grande conoscitore di Machiavelli, la passione per i complotti non accenna a spegnersi. Anzi, nel nostro Paese, forse più che altrove, si diffonde e cresce sino a trasformare questi ultimi in moda culturale e in chiave di spiegazione che si pretende, diversamente che nel passato, scientificamente fondata. E questo perché il complottismo, inteso come una forma mentale, è autoassolutorio, consolatorio, gratificante e inattaccabile, oltre a trovare il sostegno di molta stampa e di alcuni movimenti politici.
Con il professore Campi proveremo a capire meglio il complottismo, inteso come “il prezzo che si paga alla modernità, il segno di una regressione dell’intelligenza, che ha perduto la forza di pensare la realtà e sopportare la casualità”.
Professore, la situazione in Italia è così preoccupante che ha sentito l’esigenza di curare un libro?
Mi interesso del tema da molti anni. Avevo già curato un dossier sull’argomento nel 2012, in un fascicolo della “Rivista di Politica”, che dirigo. Nel 2014 ho pubblicato un volume intitolato Sulle congiure (sempre pubblicato da Rubbettino), nel quale ho raccolto e commentato tutti i brani delle opere di Niccolò Machiavelli dedicati alle cospirazioni antiche e rinascimentali. L’Italia, come cerchiamo di spiegare, è malata di complottismo. Ma è la cultura popolare di massa che appare sempre più impregnata di una visione della storia e della politica pronta ad enfatizzare il ruolo dei poteri occulti o segreti. La vita pubblica delle grandi democrazie appare, agli occhi di una quota crescente di cittadini, come avvolta da una coltre di mistero. Il potere viene percepito, non solo come distante, ma come qualcosa di impenetrabile. Questa mentalità è pericolosa per la vita democratica, perché diffonde l’idea che nulla di ciò che appare è reale o veritiero. C’è sempre un lato nascosto o in ombra da scoprire o portare alla luce.
E questo cosa produce?
Una cultura del sospetto permanente, una diffidenza costante nei confronti delle istituzioni che rischia di essere letale per la vita civile di qualunque Paese.
Che differenza c’è tra complotti e congiure?
La proposta che è alla base del libro, sostenuta anche da alcuni elementi semantici, è semplice. Le congiure sono un fatto storico reale, hanno una posta in gioco ben definita, sono architettate e messe in opera – magari in modo fallimentare – da soggetti concreti, hanno una finalità politica chiara, si svolgono in contesti ben determinati. I complotti, invece, quanto più tentano di spiegare eventi grandiosi, particolarmente tragici o traumatici, tanto più si risolvono in semplici fantasie letterarie, in costruzioni fantastiche, che, volendo spiegare tutto e chiamando in causa la responsabilità di soggettivi collettivi astratti e generici, in realtà, non spiegano nulla. Al massimo riescono ad individuare un qualche capro espiatorio sul quale addossare la colpa dei fatti che non riusciamo a spiegare.
Da quanto si legge, la mentalità complottista non è legata a regimi polizieschi, ma è congenita alle democrazie. Dunque, per avere meno complottisti dovremo avere meno libertà!
Il problema che abbiamo cercato di evidenziare è proprio questo. La mentalità complottista – un misto di paranoia e sospetto – viene di solito considerata tipica dei regimi di polizia o totalitari, dove, non a caso, vige un clima di paura e diffidenza reciproca tra i cittadini. Il problema è che questa psicologia collettiva la si ritrova ai giorni nostri anche nelle democrazie più avanzate. La democrazia è in teoria il regime della trasparenza e della pubblicità. Ma molti cittadini sono sempre più convinti che anche al suo interno esistano pericolose zone d’ombre. Anche il potere democratico viene sempre più percepito, da chi lo subisce, come minaccioso e illegittimo. E poi le democrazie sono complesse e per spiegare verità, che sono complesse, si usano strumenti cognitivi che semplificano. Il complottismo, dunque, viene utilizzato da chi ci crede come una scorciatoia mentale.
Lei dice che il complottismo è il prezzo che si paga alla modernità. Non è possibile spiegare ogni evento. Ma di fronte a misteri come quelli di Ustica, Mattei, Moro, Falcone e Borsellino, Moby Prince, tanto per citarne alcuni, come si fa a parlare di casualità?
I misteri nella storia esistono, ma non li si risolve, abbracciando teorie esplicative di tipo complottista. Dobbiamo rassegnarci all’idea che non tutto può essere conosciuto e non tutto può essere spiegato. Ma ciò non significa che laddove ci sia un segreto o qualcosa di poco chiaro operi dietro le quinte chi ha interesse a nascondere la verità o a manipolarla.
Dietro chi è affetto da complottismo – pensiamo a personaggi come Stalin e Hitler – si legge, c’è un paranoico, una persona diffidente, ossessionata e, nello stesso tempo, attratta dal potere.
Non bisogna considerare i complottisti come dei malati di mente, ma, certo, dietro la visione complottista esiste una particolare mentalità o psicologia nella quale l’elemento della paranoia riveste un ruolo importante. Nello stesso tempo ci sono mania di persecuzione ed un elemento di frustrazione che dipende da un dato: non voler ammettere che nel mondo le cose accadono indipendentemente dalla nostra volontà. La spiegazione complottista ci offre, invece, l’illusione di tenere il mondo sotto controllo, di conoscere la sua direzione di marcia. La maggior parte di noi è esclusa dai meccanismi decisionali e del potere, ma grazie al complottismo si illude di sapere come il potere funzioni realmente e quali siano i suoi reali obiettivi. Il complottismo ha insomma anche un che di appagante e consolatorio.
A chi sono stati attribuiti i più grandi mali della storia?
Alla massoneria, ai gesuiti, alla finanzia internazionale, ai servizi segreti, agli ebrei. Pensiamo ai Protocolli dei Savi anziani di Sion, il libro culto del cospirazionismo mondiale, un falso di proporzioni enormi a cui c’è ancora chi dà credito, soprattutto nel mondo arabo-musulmano.
Come si costruisce un complotto?
Per costruire un complotto basta avere un po’ di fantasia e qualche lettura alle spalle. In inglese complotto si dice “plot”, termine con il quale si indica anche la trama di un racconto o un film.
E come si smonta?
Per smontarlo, nonostante i complottisti ragionino con criteri che si vorrebbero oggettivi e scientifici, basta, secondo me, il buon senso. Prendiamo le scie chimiche: per quale ragione i potenti della terra dovrebbero avvelenare l’aria che respiriamo dal momento che è la stessa aria che respirano loro? Ma prendiamo anche i piani di conquista mondiale che si sono imputati nel corso della storia agli ebrei. Una volta conquistato il mondo, ammesso che sia anche vagamente possibile un obiettivo del genere, cosa se ne farebbero gli ebrei? Prendiamo, infine, l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. Davvero si pensa che gli Stati Uniti avessero bisogno di uccidere tremila loro cittadini e abbattere i due simboli architettonici di New York per avere il pretesto di fare la guerra all’Iraq, secondo la tesi di molti complottisti?
A chi tocca contestare la misteriologia?
Toccherebbe agli studiosi, se non fosse che la mentalità complottista ha contagiato anche questi ultimi. In Italia, ad esempio, c’è un fronte molto compatto di storici davvero convinto che i cosiddetti “misteri d’Italia” – dalla strage di Portella della Ginestra all’assassinio di Aldo Moro, dalla morte di Enrico Mattei all’attentato di Ustica – siano il frutto dell’esistenza, durante tutto il secondo dopoguerra, di una sorta di Stato occulto o parallelo, influenzato o persino infiltrato dai servizi segreti di altri Paesi – a partire da quelli statunitensi – che avrebbe operato accanto a quello legale e visibile.
E la stampa? Pare oggi si stia affermando la figura del retroscenista. Nel suo libro non fa una bella figura Giulietto Chiesa sull’11 settembre 2001.
Per la stampa c’è una spiegazione molto semplice. Le piste complottiste creano curiosità morbosa e, dunque, fanno vendere. I complotti sono suggestivi e si prestano ad alimentare tutte le peggiori fantasie sul potere. Si tratta di un sentimento assai radicato. E la stampa non fa altro che coltivarlo. Anche il cinema di Hollywood contribuisce in questo senso. Non si contano i grandi film che nel corso degli anni hanno alimentato la paranoia complottista. Basti pensare alla versione dell’uccisione di Kennedy, data da Oliver Stone in JFK. O a film di cassetta come “Ipotesi di complotto”, con Mel Gibson e Julia Roberts; “Nemico pubblico”, con Will Shmith e Gene Hackman; “The Manchurian Candidate”, nella versione con Denzel Washington e Meryl Streep. Ma se ne potrebbero citare molti altri.
Il complottismo è un male incurabile?
Di sicuro il complottismo è un virus che si è insinuato nel corpo delle nostre società. Purtroppo, sono soprattutto i giovani quelli più facilmente esposti alla sua aggressione. Serve un’azione di pedagogia civile. Quando si sente una stupidaggine, bisogna denunciarla come tale a voce alta.
Se le dico investigazioni giudiziarie e complottismi, cosa le viene in mente?
Dico che talvolta la magistratura ha cercato di dare corpo ad alcune fantasie complottiste, andando alla ricerca di “cupole politiche”, del “quarto uomo”, del “grande vecchio”, del “burattinaio”, e ha sempre, clamorosamente, fatto cilecca.
Nella parte conclusiva del libro c’è un preciso attacco a Pasolini, che, con una sua frase, avrebbe alimentato la cultura del sospetto.
Sì. E’ una frase contenuta in un famoso articolo di Pasolini, apparso sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974. Si riferiva alla strategia della tensione: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. All’epoca parve – e ancora oggi sembra a molti – una frase all’insegna dello spirito di denuncia e di un coraggioso impegno civile. In realtà è una frase in sé irresponsabile e assai ambigua, che, però, ha legittimato dal punto di vista culturale tutti coloro che in Italia non hanno fatto altro – negli ultimi decenni – che denunciare trame e macchinazioni senza mai produrre mezza prova. La frase dice che per condannare basta il sospetto. E che per dimostrare l’esistenza di una cospirazione criminale non c’è bisogno di prove, basta l’intuizione politica. Basta l’istinto, che nel caso di Pasolini era l’istinto dello scrittore.