Il 26 maggio 2016 è stato registrato dalle autorità sanitarie statunitensi il caso di una donna nella cui urina è stato isolato un batterio immune alla colistina, il più efficace degli antibiotici contro i microbi che sopravvivono alle altre terapie capace di neutralizzare anche i nightmare bacteria (batteri incubo), quella tipologia di batteri più resistenti del solito, scientificamente conosciuti come CRE, i batteri resistenti ai carbapenemi: sono responsabili della morte del 50% dei contagiati e si diffondono specialmente nelle strutture ospedaliere e nelle cliniche private. Si tratta del primo super batterio segnalato nel territorio della Pennsylvania: la paziente è una donna di 49 anni ed il ceppo in questione, isolato nella sua urina, è l’Escherichia coli.
C’è da preoccuparsi?
Cominciamo col chiarire cos’è l’Escherichia Coli e come lo si cura. Si tratta di un batterio potenzialmente patogeno, si trova molto spesso nell’apparato digerente umano e animale e dunque si diffonde per via oro-fecale. L’E. Coli è molto variegato perchè conta più di 170 ceppi diversi tra i quali alcuni che producono enterotossine resistenti alla temperatura.
Se trovato nel suo ambiente (tratti finale dell’apparato digerente) non c’è da preoccuparsi mentre al contrario desta preoccupazione qualora venisse rinvenuto in altri apparati, come quello urinario: potrebbe causare la cistite.
Come si combatte l’E. Coli?
Per mezzo di numerosi antibiotici orali e endovenosi. Di seguito un breve elenco di alcuni di essi (in parentesi è indicato il nome del farmaco commerciale):
Quando questi non funzionano, vengono adoperati gli antibiotici di seconda linea:
Se anche questi risultano inefficaci scendono in campo:
Dal momento che, come avrete capito, l’Escherichia Coli può rivelarsi duro a morire, come “ultima speranza“ troviamo:
Esistono dunque numerose molecole -e nell’elenco precedente (tratto da “No alle pseudoscienze”) ne sono stati elencati solo alcuni- capaci di neutralizzare E. Coli, al contrario di come urlato dalla stampa internazionale, è statisticamente molto raro che il batterio sviluppi contemporaneamente una resistenza a tutti gli antibiotici in circolazione. A creare scalpore è stata la resistenza da parte del batterio a quello che è considerato l’ultima spiaggia degli antibiotici, prima volta nel territorio della Pennsylvania, ma quando è stata comunicata la notizia, la donna, le cui condizioni sono sempre state piuttosto buone e mai in pericolo di vita, non era stata ancora trattata con altri antibiotici. Di seguito la paziente, che non aveva circolato al di fuori del territorio USA negli ultimi 5 mesi, ha risposto positivamente ai trattamenti. La situazione non è drastica ma lascia la comunità scientifica in uno stato di allerta per via di un’evenienza che non è più possibile ignorare: l’inefficacia degli antibiotici dovuta a prescrizioni per terapie in cui non sono necessari e somministrazioni fai da te nelle situazioni cliniche in cui una patologia è curabile in altro modo. La mutazione ha reso l’E. coli nella paziente della Pennsylvania resistente ai classici antibiotici somministrati per contrastarlo e alla colistina, ma non a tutti gli antibiotici conosciuti e utilizzati in medicina. È stato necessario l’utilizzo di altri antibiotici molto potenti e usati solo in casi gravi che, combinati insieme, hanno permesso di tenere sotto controllo l’infezione.
Come nasce la resistenza agli antibiotici?
Da quando esistono gli antibiotici esiste la resistenza ad essi da parte dei batteri che lottano per sopravvivere: un fenomeno naturale che avviene in tutte le specie minacciate, i batteri non fanno esclusione. Questo processo però è stato accelerato e aggravato negli anni a causa di un uso scorretto dei farmaci antibiotici come ad esempio il trattamento di infezioni virali oppure i cicli prescritti a scopo preventivo. Altro fattore principale che contribuisce alla resistenza da parte dei batteri è il trattamento del bestiame da allevamento con basse dosi di antibiotici per favorirne la crescita ed evitare le malattie negli ambienti sovraffollati degli allevamenti intensivi. La pratica è vietata in Europa dal 2006, ma ancora oggi negli Stati Uniti il consumo di antibiotici destinati agli animali ricopre circa l’80% del totale (il dato statistico è stato pubblicato dalla American Medical Association).
Di quali batteri dobbiamo preoccuparci?
Nella blacklist ci sono tutti quei batteri che causano infezioni comuni negli ambienti affollati (asili nido, scuole, ospedali, uffici) oppure quelli che generano infezioni alimentari. Vi troviamo infatti Escherichia coli (causa di infezioni del tratto urinario e setticemie), Klebsiella pneumoniae (polmoniti e setticemie), Staphylococcus aureus (infetta le ferite e può trasmettersi al sangue), alcune specie di batteri enterococchi (diarrea e infezioni trasmesse dal cibo). La polmonite, curata con la penicillina, potrebbe sviluppare in seguito una forte resistenza al trattamento. Da non sottovalutare c’è anche la cistite, infezione molto comune in cui, spesso, non sono più sufficienti i farmaci orali ed è necessario ricorrere ad antibiotici iniettabili.
È la prima volta che si verifica un fenomeno clinico di questo tipo?
ASSOLUTAMENTE NO. I ricercatori, che hanno analizzato alcuni campioni del batterio della donna, hanno scoperto che la resistenza alla colistina si doveva dalla presenza del gene mcr-1 in un “plasmide”, un filamento di DNA circolare che si può spostare tra le cellule trasmettendo le sue informazioni genetiche. Questo gene fu identificato per la prima volta in un campione di E. coli trovato in un maiale in Cina nel 2015 e successivamente in alcuni pazienti in Malesia ed Europa. Tale scoperta fu già definita “preoccupante” da ricercatori ed esperti, perché la diffusione del gene è resa molto più semplice e rapida dalla sua presenza nel plasmide, scambiabile tra le cellule batteriche attraverso un processo di trasferimento genico orizzontale: il materiale genetico viene trasmesso a una cellula non discendente, a differenza del trasferimento verticale con il quale la trasmissione avviene attraverso la riproduzione. In poche parole un batterio con mcr-1 resistente alla colistina che trasmette l’informazione genetica attraverso un plasmide, può insegnare agli altri batteri come diventare resistenti all’antibiotico. La preoccupazione degli scienziati è rivolta alla capacità di tale condivisione di informazioni che può avvenire anche tra batteri di diverso tipo, compresi quelli già noti per essere resistenti a un ampio spettro di antibiotici.
Ci sono casi registrati in Italia?
Si, ci sono pazienti che sono stati infettati con batteri che resistono agli antibiotici più potenti ma sono di una tipologia molto diversa da quella che ha colpito la donna americana. A comunicarlo è Annalisa Pantosti, ricercatrice dell‘Istituto Superiore di Sanità che sulla situazione si è espressa così: “La gravità dell’impossibilità di trattare il paziente noi l’abbiamo già nel nostro paese, non per l’Escherichia Coli come nel caso statunitense ma per un’altra classe di batteri, le clebsielle pneumoniae resistenti ai Carbapenemi, che nel 30-40% dei casi sono ormai resistenti anche alla Colistina. In questi casi si ricorre ad antibiotici di fortuna, magari in disuso, oppure a combinazioni di più farmaci, ma la mortalità è molto alta, anche se difficile da quantificare perché di solito i pazienti hanno anche altri problemi di salute. La scoperta in USA però è preoccupante perché la resistenza di quel tipo è facilmente trasmissibile ad altri batteri. Speriamo che queste scoperte spingano verso la ricerca di nuovi antibiotici, anche perché ce ne serve più di uno per contrastare il fenomeno. L’altra cosa da fare è limitare l’uso di quelli esistenti”.
A quanto ammonta il consumo di antibiotici in Italia?
Nel 2008 il 44% della popolazione italiana assistibile ha ricevuto almeno una prescrizione di antibiotico con un impiego maggiore in età pediatrica e nella popolazione anziana. In particolare, 53 bambini su 100 e 50 anziani su 100 hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotico. Con l’avanzare dell’età aumenta la frequenza di prescrizioni ripetute di antibiotici: i pazienti, con età sino a 64 anni, che hanno ricevuto 6 o più prescrizioni di antibiotici costituiscono il 13%, questa percentuale sale al 23% nella classe di età tra i 65 e i 74 anni e diventa il 30% nella classe di età oltre i 75 anni. I dati sono stati divulgati dal Centro Nazionale di Epidemiologia e si riferiscono ad un’indagine condotta nel 2008: non dovrebbero differire di molto dalla situazione attuale.
È davvero la fine degli antibiotici?
I batteri resistenti a tutti gli antibiotici in commercio esistono davvero, come ad esempio alcuni ceppi di Pseudomonas e di Burkholderia cepacea ma, a differenza del caso della donna americana, si tratta di batteri non patogeni; dunque interessano soltanto quella cerchia di pazienti immunodepressi o affetti da Fibrosi Cistica, poiché il batterio attacca l’organismo in caso di mancata difesa. La batterio-resistenza resta uno dei pericoli maggiori perchè i tempi di ricerca sono più lunghi rispetto al tempo necessario ad un batterio ad acquisire nuove resistenze: l’uso spropositato degli antibiotici, anche quando non necessario, può portare ad una resistenza batterica. La colpa quindi si divide fra medici dalla prescrizione facile e pazienti “fai da te”.
Quali reazioni ha scatenato il fenomeno nella comunità scientifica?
Thomas Frieden, direttore dei Centri americani per la prevenzione e il controllo delle malattie, ha commentato i casi dicendo che «la fine della strada degli antibiotici non è molto lontana». L’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha rilasciato un rapporto mettendo nero su bianco che “Se non si corre ai ripari, la situazione potrebbe aggravarsi fino a un punto di non ritorno”. Altri esperti hanno affidato alla nota rivista Nature un appello: la necessità di istituire un organismo internazionale così da controllare la situazione ed elaborare soluzioni efficaci.
Quale sarà la risposta della scienza?
Una delle probabili strategie ad essere adoperate è la combinazione di diversi antibiotici tra quelli esistenti, di rinforzare le molecole esistenti con sostanze adiuvanti che rendano i microbi resistenti di nuovo suscettibili e di mettersi alla ricerca di nuovi composti antibatterici. Inoltre è in corso lo studio di alcune molecole tra le quali una in grado di arrestare lo sviluppo della Pseudomonas aeruginosa, responsabile di gravi polmoniti acquisite in ospedale. La scoperta sulla paziente della Pennsylvania non deve essere sottovalutata ma nemmeno ingigantita: mcr-1 era già noto ai ricercatori e c’era da aspettarsi che, dopo essere stato localizzato in Asia e in Europa, prima o poi venisse individuato anche negli Stati Uniti. Non sappiamo da quanto tempo esista la mutazione, né quale sia stata la causa. L’eccessivo consumo di antibiotici da parte della popolazione resta in cima alla lista, perché può rendere più probabile la selezione di batteri con mutazioni che li rendono resistenti ai farmaci. Il consiglio più prezioso è quello di assumere antibiotici con CAUTELA, quando NECESSARIO e SOLO con PRESCRIZIONE MEDICA.