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Acceleratore di particelle rivela i segreti di un dinosauro semi-acquatico

Battezzato Halszkaraptor escuilliei, è il primo dinosauro simile agli uccelli acquatici, adattato ad uno stile di vita anfibio. La scoperta – pubblicata su Nature – arriva da un fossile rinvenuto in Mongolia e sottratto al circuito del mercato nero

Halszkaraptor

Ricostruzione di Halszkaraptor a cura di Lukas Panzarin

Un team internazionale di ricercatori, coordinato da Andrea Cau, dottore di ricerca Unibo e paleontologo al Museo “Capellini” dell’Università di Bologna, ha svelato l’inusuale stile di vita di un nuovo dinosauro predatore vissuto 75 milioni di anni fa.

Battezzata Halszkaraptor escuilliei, la nuova specie – rivela uno studio pubblicato su Nature (link attivo dopo la scadenza dell’embargo) – combina in sé un bizzarro mix di caratteristiche mai osservate prima nei dinosauri e dimostra che alcune specie simili ad uccelli si adattarono ad uno stile di vita semi-acquatico. Il nuovo dinosauro, grande come un pollo, poteva infatti muoversi agevolmente a terra, ma sapeva anche nuotare in acqua in modo simile a molti uccelli marini odierni.

Halszkaraptor
Il tam di ricerca accanto al fossile di Halszkaraptor, credits: UNIBO

Dinosauri acquatici?

I dinosauri hanno dominato gli ecosistemi terrestri per oltre 150 milioni di anni. Giganteschi predatori come Tyrannosaurus e agili cacciatori come Velociraptor hanno conquistato un posto preminente nell’immaginario collettivo, e continuano ad essere oggetto di intense ricerche da parte dei paleontologi. Eppure, nonostante il loro successo sulle terre emerse, i dinosauri non colonizzarono mai gli habitat acquatici. Sebbene sia noto che alcune specie di dinosauro si nutrissero di pesce, è ancora dibattuto se questi animali frequentassero abitualmente gli ambienti acquatici.

Un’importante novità arriva ora da un fossile, che gli studiosi hanno soprannominato “Halszka“: uno scheletro completo ed ancora in parte inglobato nella roccia originaria, proveniente da Ukhaa Tolgod, località nel sud della Mongolia. Nonostante nel paese asiatico siano stati ritrovati molti tipi di dinosauro, Halszka non appartiene a nessuno dei gruppi già noti.

Halszkaraptor
Il fossile di Halszkaraptor, credits: UNIBO

Un fossile illegale

“Halszka è così bizzarra e inattesa, che la prima volta che la esaminai mi chiesi se fosse un falso, un artefatto”, commenta Andrea Cau, paleontologo che collabora con il Museo Geologico “Capellini” dell’Università di Bologna e che ha guidato lo studio. “La prima impressione, infatti, è che sia una chimera, costruita mescolando parti di dinosauri differenti. Il dubbio era anche legato alla storia particolare di questo fossile, scavato illegalmente e destinato ad essere venduto nel mercato nero”.

Andrea Cau
Andrea Cau analizza il fossile di Halszkaraptor, crediti Andrea Cau

Il sito di Ukhaa Tolgod, noto ai paleontologi da decenni, è infatti anche vittima, purtroppo, di numerosi scavi illegali. “Il mercato nero dei fossili, alimentato da questi scavi illegali, rappresenta una seria minaccia per il patrimonio scientifico della Mongolia“, spiega Pascal Godefroit, dell’Istituto Reale delle Scienze Naturali del Belgio, coautore dello studio. “Esportata illegalmente dalla Mongolia, Halszka ha fatto parte di varie collezioni private in giro per il mondo, prima che la recuperassimo nel 2015, per sottoporla a ricerche scientifiche e per avviare il suo definitivo ritorno in Mongolia, in un istituto scientifico pubblico”.

Tecnologie eccezionali

Per fugare ogni dubbio sull’autenticità del fossile, Halszka è stato analizzato usando un’innovativa tecnica di scansione tramite microtomografia a radiazione di sincrotrone, realizzata presso l’European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble (ESRF). “L’ESRF è il più avanzato laboratorio al mondo per la produzione di raggi X ad uso scientifico”, spiega Paul Tafforeau, paleontologo dell’ESRF. “Si tratta della tecnologia più potente e sensibile per analizzare un fossile senza danneggiarlo. Halszka è stato oggetto della più dettagliata scansione tomografica realizzata finora su un fossile“.

Scansione 3D
Scansioni 3D del cranio di Halszkaraptor, credits: ESRF

E i risultati sono stati positivi. “Per risolvere tutti gli enigmi di questo esemplare – dice ancora Andrea Cau – era necessario ricorrere a tecnologie eccezionali. Ma alla fine delle mie indagini non avevo più dubbi sull’autenticità del fossile”.

Le analisi svolte presso i laboratori di Grenoble hanno così confermato che il fossile rinvenuto in Mongolia è autentico, ma non solo: hanno anche rivelato ulteriori elementi scheletrici di Halszka. “All’interno del blocco di roccia è ancora preservata la parte dello scheletro non visibile all’esterno”, sottolinea Dennis Voeten dell’ERSF. Inoltre, le scansioni tomografiche hanno mostrato dettagli anatomici inaspettati, tra cui un sistema ramificato di camere all’interno del muso. “Simili strutture sono presenti oggi nei coccodrilli, e fanno parte del sistema sensoriale utilizzato quando l’animale è in acqua”, commenta Vincent Beyrand dell’ESRF. [Guarda la scansione 3D qui!]

La vita di Halszka

Combinando indagini paleontologiche e scansioni tomografiche, i ricercatori hanno ricostruito lo stile di vita di Halszka. “Questa nuova specie, che abbiamo battezzato Halszkaraptor escuillieiè il primo dinosauro simile agli uccelli acquatici, adattato ad uno stile di vita anfibio. Grande come un pollo, era capace sia di muoversi agevolmente a terra, come gli altri dinosauri, sia di nuotare in acqua utilizzando gli arti anteriori come pinne, come fanno molti uccelli marini odierni”, conclude Andrea Cau. “Abbiamo anche scoperto che Halszkaraptor non era solo: almeno altre due specie di dinosauri della Mongolia, trovati in passato ma rimasti fino ad ora enigmatici, risultano imparentati con Halszka“.

Questo nuovo gruppo di predatori semi-acquatici, lontani parenti del famoso Velociraptor, dimostra insomma che il mondo dei dinosauri è ancora in gran parte sconosciuto, e che i fossili scoperti finora sono come la punta di un iceberg del quale ignoriamo profondità e complessità.

I protagonisti dello studio

Lo studio, pubblicato il 6 dicembre sulla rivista internazionale Nature, è frutto della collaborazione tra il Museo Geologico “Giovanni Capellini” dell’Università di Bologna, l’Istituto Reale delle Scienze Naturali di Bruxelles, l’ESRF di Grenoble, la Vrije Universiteit di Bruxelles, l’Università dell’Alberta (Canada) e l’Accademia delle Scienze di Ulaanbaatar (Mongolia).