Scoperto a cavallo degli anni ’60 e ’70 dal Dr. Richard Ablin, un importante immunologo americano, il PSA si è fatto pian piano strada tra i molti scetticismi fino ad affermarsi, in America, come marcatore tumorale utile nello screening di patologie a carico della prostata. L’Antigene Prostatico Specifico è, infatti, una proteina prodotta esclusivamente nella prostata. I suoi valori, molto bassi nel sangue di un individuo sano, tendono a modificarsi in caso di diverse situazioni patologiche, che si tratti di semplici prostatiti o che ci si trovi in presenza di un tumore.
I problemi generati dall’utilizzo di questo marcatore sono però notevoli. I valori ematici di PSA, innalzandosi anche in presenza di patologie diverse dal tumore prostatico, portano all’identificazione di numerosi casi di falsi positivi, ovvero individui sani indicati come malati.
La storia del PSA è stata, fin dall’origine, molto travagliata. Fu identificato dal Dr. Ablin e un gruppo di urologi, che stava lavorando ad un trattamento crioterapico per il cancro della prostata; si vide che in pazienti oncologici, il congelamento della prostata portava alla regressione di metastasi distanti dall’organo, portando i ricercatori a pensare che dovesse esistere un tramite che giustificasse tale fenomeno.
Ablin era alla ricerca di un marcatore altamente specifico per il tumore prostatico, una proteina in grado di segnalare la presenza, in modo univoco, di una neoplasia. Le sue speranze non furono pienamente soddisfatte quando si arrivò alla scoperta del PSA. Si vide subito che questa proteina non poteva essere un marcatore tumorale, sebbene il suo valore fu preso in considerazione come campanello di allarme di recidiva in pazienti già operati.
Inizialmente, nel 1986, la FDA americana lo accettò in questo senso, fornendo ai medici indicazioni precise sulle situazioni cliniche nelle quali era possibile far ricorso al marcatore portato alla luce da Ablin.
Da quella data, tuttavia, la comunità medica iniziò ad utilizzare sempre di più il PSA, tanto che nel 1994 dopo una fase molto controversa, la stessa FDA lo approvò come test di screening per patologie prostatiche per tutti gli uomini al di sopra dei 50 anni.
Il grosso limite di questo marcatore risiede nella sua scarsissima specificità, ovvero nella scarsa capacità di questo test di identificare correttamente i malati. La percentuale di falsi positivi si aggira intorno all’80%. Ciò significa che eseguendo cinque biopsie prostatiche, basandosi esclusivamente sui valori di PSA, ben quattro risulteranno provenienti da un tessuto sano e, ancor più grave, 4 prostatectomie su 5 non porterebbero nessun beneficio ma soltanto una serie di importanti problemi per i pazienti.
Il Dr. Ablin, con il tempo, è divenuto uno dei principali detrattori della sua stessa scoperta. Si dichiarò più volte preoccupato di ciò che si era venuto a creare intorno a questo enzima tanto da definire il PSA “un vero disastro della sanità pubblica, costato molti miliardi di dollari l’anno”. Ablin nel 2014 scrisse un libro, “The great prostate hoax” (“Il grande imbroglio della prostata”), proprio contro l’utilizzo del suo enzima. Non è stato possibile dimostrare come la gravità della situazione clinica possa essere messa in relazione con i livelli di PSA. Malattie gravi possono non alterare in modo significativo i valori di tale enzima, così come situazioni innocue possono farli salire. Nel libro si sottolinea come il 60% degli uomini al di sopra dei 60 anni, se sottoposti al test del PSA, risulterebbero positivi.
Oggi, nonostante sia accertato che la possibilità di falso positivo nel test del PSA sia incredibilmente alto, questo rimane insieme a diversi controlli strumentali, uno degli elementi diagnostici più utilizzati nella ricerca di malfunzionamenti della prostata.
Gli urologi stanno imparando a dimenarsi sempre meglio tra le possibilità di errore del test essendo in grado di identificare in modo accurato i casi di rischio di neoplasie. Proprio per questi motivi, sebbene non si possa affermare che il PSA sia effettivamente un marcatore tumorale, sicuramente può essere un valido alleato nella diagnosi.