Parafrasando il nome di un noto film potremmo dire che “la ricerca non dorme mai”. Trovare una cura, o anche solo una strada da percorrere, per malattie che affliggono milioni di persone nel mondo è l’obiettivo di moltissimi studiosi. Il morbo di Alzheimer (AD, Alzheimer Desease) è certamente tra queste. La scarsa conoscenza riguardo l’origine della patologia ha reso, ad oggi, ogni tentativo di cura quasi completamente inefficace. Forse, tuttavia, qualcosa comincia a venire a galla.
Un nuovo studio firmato da Annalena Venneri, docente presso l’Università di Sheffield, e da Matteo De Marco pone le basi per tentare di comprendere meglio quale sia la causa dell’impossibilità di creare nuovi ricordi nei pazienti affetti da AD.
Per la prima volta uno studio di questo genere è stato condotto sull’uomo. Le nostre conoscenze della malattia si basano per lo più su lavori condotti su modelli murini; questa volta, invece, l’attenzione è stata spostata direttamente sull’essere umano, nonostante le notevoli difficoltà che questo comporta.
I ricercatori hanno sottoposto ad una fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) 51 persone sane, 30 soggetti con lievi deficit cognitivi e 29 pazienti con diagnosi accertata di AD.
Il loro scopo è stato ricercare una correlazione tra la capacità mnemonica dei soggetti e la grandezza di una piccola regione cerebrale, chiamata area tegmentale ventrale (ATV), localizzata nell’ippocampo. Si è potuto vedere come, effettivamente, una riduzione nel volume di questa regione possa essere indicata come un segno precoce di decadimento cognitivo che limita le possibilità di creare nuovi ricordi. Questa involuzione sembra essere data da un difetto nel funzionamento di neuroni dopaminergici, ovvero che sfruttano come neurotrasmettitore una molecola chiamata dopamina. Si tratta di cellule che sono responsabili, tra le altre cose, delle connessioni funzionali tra ATV e resto della regione ippocampale.
“L’ippocampo è associato con la formazione di nuovi ricordi, per cui questi risultati sono cruciali per una anticipata identificazione della malattia di Alzheimer. I dati indicano un cambiamento molto precoce, che potrebbe quindi innescare la patologia”.
Con queste parole la Dott.ssa Venneri commenta la pubblicazione del lavoro, che avrà bisogno di approfondimenti per portare a risultati ancor più interessanti.
La grande conseguenza dello studio sembra essere più diagnostica che terapeutica, poiché, se questi risultati verranno confermati, si potrà cambiare l’obiettivo da ricercare per diagnosticare la malattia prima che questa si manifesti nella sua forma più acuta.
Gli stessi autori indicano che i loro prossimi obiettivi saranno proprio volti verso la ricerca di una terapia. Si tenterà di comprendere quanto precocemente si sarà in grado di identificare queste anomalie nella funzionalità dell’ATV e quanto si potrà essere in grado di porvi rimedio ricorrendo a soluzioni terapeutiche già in nostro possesso.