Una pubblicazione apparsa nei mesi scorsi sull’International Journal of Infectious Deseases ha attratto l’attenzione dell’opinione pubblica. Una donna di 69 anni ha avuto la sfortuna di incontrare un’ameba molto aggressiva: la Balamuthia Mandrillaris. Difficilissima da individuare, l’infezione da parte di questo essere è un evento rarissimo. I casi documentati sono circa 200, di cui 70 negli USA e nessuno in Italia.
Scoperta nel 1986 in un reperto autoptico di un Mandrillo, la Balamuthia Mandrillaris è stata dichiarata una specie a sé stante solamente nel 1993 e successivamente associata all’encefalite amebica granulomatosa (GAE).
Già paziente oncologica per un trascorso cancro della mammella, il vero dramma di questa signora americana cominciò un anno prima della diagnosi definitiva.
Tutto cominciò con l’insorgenza di una sinusite cronica. Dal momento che le cure di prima linea prescritte dal medico di base si rivelarono inesistenti, la paziente decise di rivolgersi ad un otorino.
L’indicazione dello specialista fu di detergere il naso con una soluzione salina o acqua sterile. Purtroppo non sempre si decide di ascoltare il medico e seguire alla lettera ciò che dice. Spesso, però, dietro le apparenti raccomandazioni inutili si cela la conoscenza di rischi che si potrebbero banalmente evitare. La paziente, pensando che l’acqua del rubinetto potesse andare bene, utilizzò quella. E non fu una buona idea. Dopo un mese di utilizzo di acqua corrente un rash cutaneo le apparve sul naso.
Ecco che inizia il calvario. I dermatologi decisero di eseguire più biopsie nel corso del tempo ed i patologi suggerirono ogni volta la stessa diagnosi differenziale: rosacea o rosacea granulomatosa, con considerazione di rottura dei follicoli, infezione, sarcoidosi, granuloma faciale e linfogranuloma perifollicolare. Tuttavia la diagnosi certa non venne data.
Un anno dopo i sintomi si fecero più severi. La paziente iniziò a mostrare segni di sofferenza neurologica nella parte sinistra del corpo.
Alla TC eseguita con contrasto risultò evidente una lesione nella parte destra della corteccia motoria, compatibile con un glioma di alto grado, ovvero un tumore cerebrale. Non si mostravano, tuttavia metastasi in altri organi. Portata in sala operatoria i chirurghi prelevarono il presunto glioma che anche al microscopio sembrava compatibile con la diagnosi. Non soddisfatti, però, i medici inviarono il reperto patologico al dipartimento di Neuoropatologia della Johns Hopkins University. Dopo 19 giorni dall’Università tornò il referto: sospetta infezione da ameba. Dopo una seconda operazione si iniziò subito un nuovo trattamento specifico per le infezioni amebiche. Nessun risultato positivo, la paziente peggiorava costantemente.
Studi specifici per la ricerca della Balamuthia Mandrillaris risultarono positivi. La paziente entrò in coma per una encefalite amebica granulomatosa (GAE) e ne seguì il decesso.
Da quanto abbiamo detto alcuni potrebbero pensare che sia stata l’incompetenza del personale sanitario a determinare la morte della paziente.
“Ma come? Più di un patologo ha osservato le biopsie e nessuno è stato in grado di fare una diagnosi?”; non è così semplice.
Al di là della rarità di questo tipo di infezione, l’ameba in questione ha la caratteristica di essere praticamente indistinguibile, se non attraverso indagini specifiche per quell’organismo, rispetto ai normali macrofagi umani. Non è nemmeno possibile coltivare queste amebe in terreni comuni perché richiedono la presenza di cellule di mammifero per poter sopravvivere.
La diagnosi è più agevole su un campione bioptico di granuloma cerebrale, ma a quel punto la mortalità si aggira intorno al 100%.
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