L’evoluzione e l’origine del cosmo sono da sempre argomento di studio da parte degli scienziati, e gli strumenti tecnologici sempre più all’avanguardia hanno permesso, nel corso degli anni, di modificare o addirittura rivalutare alcune teorie. Con la teoria della relatività di Einstein (1915) è stato possibile cominciare a studiare un qualsiasi sistema gravitazionale, e quindi approcciare all’evoluzione del cosmo stesso. Poco dopo Edwin Hubble, a cui si deve il nome del gigantesco telescopio orbitante, gettò le basi per la teoria del Big Bang: l’Universo è in espansione, ed ebbe origine miliardi di anni fa in uno stato di enorme densità e temperatura, raffreddandosi ed espandendosi progressivamente.
La teoria del Big Bang non fu mai più spodestata: neanche “il principio cosmologico perfetto”, che si avvale dell’idea che l’Universo sia sì in espansione, ma anche che crei continuamente nuova materia per poter restare uguale in ogni punto, direzione, ed istante, riuscì a distrarre dall’idea di espansione e raffreddamento progressivi.
Oggi, il modello cosmologico standard si basa sulle teorie di Einstein e Hubble, che peraltro furono definitivamente confermate negli anni a seguire grazie a osservazioni supportate da conoscenze scientifiche maggiori e strumenti tecnologici altamente attendibili.
Ma, come si suol dire, non è tutto oro ciò che luccica. Ed è letteralmente così. Tutti gli oggetti che riusciamo ad osservare sono davvero tutte le componenti del cosmo attorno a noi? Questa domanda sale sul palcoscenico scientifico intorno agli anni ’30, quando Fritz Zwicky, da buon astronomo, era intento a studiare le galassie della Chioma; avvalendosi della legge della gravitazione universale di Newton, egli stimò una massa esistente pari a 400 volte quella osservabile: ciò significa che secondo i suoi calcoli dovevano esistere altri corpi ed oggetti celesti, in qualche modo impossibili da vedere.
Fu soltanto 40 anni dopo che tale stranezza fu riportata al centro dell’attenzione: gli astronomi statunitensi Rubin e Ford valutarono attentamente le asserzioni fatte dal Zwicky, ponendosi l’obiettivo di studiare le curve di rotazione delle galassie, ossia la velocità con cui ruotano le stelle in funzione della distanza dal centro della galassia.
Servendosi della medesima legge che aveva utilizzato l’astronomo ad essi antecedente, riuscirono innanzitutto a trovare riscontro nelle dinamiche del Sistema Solare, confermando il fatto che i pianeti, nel loro moto di rivoluzione, rallentano allontanandosi dalla stella attorno a cui orbitano. Dunque, Rubin e Ford si aspettavano simili risultati nella valutazione della massa di varie galassie a spirale.
A quel tempo era infatti già possibile avere informazioni su velocità e massa di oggetti celesti: grazie all’effetto Doppler si può misurare la velocità delle stelle situate a differenti distanze dal centro di una galassia, da cui è poi possibile ricavare la massa presente in ogni orbita (e quindi tutta la massa distribuita circoscritta all’interno di una specifica traiettoria).
Ciò che gli astronomi scoprirono fu alquanto sorprendente: indipendentemente dalla distanza dal centro, tutte le stelle distanti avevano grossomodo la stessa velocità. Come era possibile? Newton era un ciarlatano? Andava rivalutata tutta la fisica?
La risposta sta nella capacità di guardare oltre: esiste altra materia a grandi distanze dal centro di una galassia, che non possiamo vedere, ed è definita materia oscura, presente in quantità cinque o sei volte maggiori rispetto alla materia ordinaria.
Nel 1992 il satellite COBE (COsmic Background Explorer) della NASA, oltre a confermare la teoria del Big Bang grazie alla scoperta della radiazione cosmica di fondo a microonde (CMBR), fu in grado di rilevare piccole anisotropie, ossia piccole differenze nella temperatura dei fotoni che ci raggiungono dal cielo profondo (si parla di variazioni dell’ordine di microkelvin).
Al tempo della ricombinazione, diverse densità della materia hanno comportato ammassi più o meno maggiori rispetto alla media, e poiché prima della stessa fotoni, neutroni ed elettroni formavano un plasma, le zone più compresse di quest’ultimo si sono manifestate più calde (viceversa per le zone meno dense).
Grazie ai satelliti WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) della NASA e poi il Plank dell’ESA lanciati successivamente, oggi abbiamo osservazioni molto più precise, con una mappa delle anisotropie minuziosamente ricostruita.
Estrapolando informazioni quantitative da questa ricostruzione è stato possibile generare il cosiddetto spettro di potenza, che non è altro che una misura dell’ampiezza delle fluttuazioni di temperatura in funzione della dimensione dei punti caldi e freddi, ossia a diverse scale, nonché un efficiente strumento di deduzione di altre caratteristiche del nostro Universo.
Analizzando lo spettro di potenza si può dedurre che la densità della materia ordinaria costituisce solo il 5% dell’energia dell’universo, e che la materia oscura contribuisce per il 25% di quest’ultima: il restante 70% scaturisce da prove indirette a sostegno dell’esistenza di una nuova componente, l’energia oscura!
Dunque, l’universo osservabile costituisce solo il 5% del grande e misterioso posto in cui siamo immersi. Ma cosa è questa materia oscura? Diverse sono le teorie che si sono susseguite nel corso degli anni, che vanno dai MACHO (Massive Astrophysical Compact Object, altrimenti detti corpi celesti tenui) ai neutrini, che in quanto particelle calde furono da subito scartate per la loro incompatibilità con la materia oscura stessa, che è stato dimostrato essere fredda (caldo o freddo non hanno a che vedere con la temperatura, ma con la velocità delle particelle che compongono la materia).
E allora perché non pensare alle pesantissime WIMP (Weakly Interactive Massive Particle) o ai leggerissimi assioni, particelle molto stabili e in grado di interagire debolmente con la materia ordinaria? Oppure perché la materia oscura non dovrebbe essere costituita da buchi neri primordiali? E perché non considerare i neutrini sterili? Si potrebbe divagare all’infinito: la materia oscura resta un mistero.
Un’ultima, sorprendente possibilità accarezza l’idea che la materia oscura non esista affatto. Se così fosse, cadrebbero le teorie della relatività e della gravità: in particolare, potrebbe esistere l’eventualità di modificarle a distanze nettamente maggiori.
È ciò che propongono teorie come la MOND o Modified Newtonian Dynamics, che asserisce che la forza gravitazionale si comporta in maniera differente a seconda delle accelerazioni (distanze) coinvolte; nel caso del Sistema Solare (grandi accelerazioni) tale forza segue in modello newtoniano (variazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza), varia invece in maniera differente per accelerazioni molto più piccole: otterremmo cioè che la velocità di rotazione delle galassie è costante a qualsiasi distanza, in accordo con le osservazioni fatte. Tuttavia, anche questa teoria incontra il suo limite a scale maggiori.
Non ci resta che attendere che, ancora una volta, la fisica faccia il suo corso, e, come sempre, saremo soltanto gli spettatori di questo magnifico show cosmico.