A seguito dell’ultimo grave incidente ambientale, accaduto il 29 Maggio 2020 nella centrale termoelettrica vicino Norilsk, nell’Artide Russo, dove a causa del cedimento di un serbatoio di stoccaggio sono state riversate nell’ambiente circostante centinaia di tonnellate di diesel.
Siamo tornati a chiederci quanto sia ancora necessario ricorrere all’impiego di combustibili tutt’altro che eco-friendly, a fronte di un silente ma crescente sviluppo nel campo dei biocombustibili o del motore elettrico.
A cura di Naomi Guadagnini
Breve refresh. Più o meno tutti riusciamo a distinguere sensorialmente diesel e benzina, in primis grazie all’odore, grazie alla consistenza oleosa differente, alcune persone anche grazie al colore e alla volatilità. Tuttavia, spesso non ci si pone il problema di indagare in merito al loro utilizzo, alla loro pericolosità e alla loro sostituibilità effettiva. Partiamo dal principio: sia diesel che benzina derivano da trattamenti chimici sul petrolio, miscela idrocarburica che dopo decantazione, desalificazione e stabilizzazione viene posta in colonna di distillazione.
Qui si procede via topping, (distillazione frazionata) portando a temperatura di ebollizione la miscela, e separando quindi le principali frazioni gassose, liquide o semisolide sfruttando i differenti intervalli di temperature di distillazione. Tutto ciò fa parte della cosiddetta raffinazione del greggio, che ci consente di ottenere vari prodotti finali quali solventi, carburanti, bitumi e lubrificanti. Gli idrocarburi che possiamo isolare a valle di questi processi, si suddividono in alifatici e aromatici.
La classe degli alifatici, dal greco áleiphar -eíphatos cioè “unguento”, è suddivisibile in idrocarburi saturi e insaturi. Una molecola alifatica si dice satura, se vi sono solo legami singoli, quelle insature invece, presentano anche almeno un legame doppio (alcheni) o triplo (alchini). È importante sapere che la nomenclatura dei composti idrocarburici viene elaborata per prima cosa contando gli atomi di carbonio che questi contengono. Avremo dunque, che gli alcani, cioè quelli che ci interessano in questa trattazione, si possono distinguere in “leggeri” o “pesanti”, a seconda che essi siano rispettivamente a basso o alto peso molecolare.
È principalmente da una miscela di due alcani leggeri, che deriva la benzina, e da una miscela di più alcani pesanti, che deriva il diesel. Sappiamo ora che entrambi sono dunque derivati del petrolio, e che sono più vicini di quanto si possa pensare. Sappiamo anche che la combustione di questi composti idrocarburici, ci fornisce energia, ma questo ha un costo, che si riflette direttamente sull’ambiente, e dunque su di noi. In più, considerando che per definizione il combustibile fossile è esauribile, prima o poi terminerà.
Nel corso degli anni, grazie ad una crescente attenzione verso lo sviluppo ecosostenibile, gli sforzi che si
stanno facendo per ovviare ai problemi derivanti dalla combustione di idrocarburi si sono intensificati e hanno dato numerosi frutti. Grande è l’impegno che si sta mettendo nel progresso dell’elettrico, che tuttavia
necessita di un tessuto industriale complesso, di studi approfonditi per garantire una buona efficienza, e di un sistema in grado di smaltire le batterie esauste, non ancora presente.
Stiamo portando avanti evoluzioni che un giorno non troppo lontano, sfoceranno in una 3° rivoluzione industriale, capitanata dalla necessità di tutelare il mondo in cui viviamo. Tutti i tentativi che stiamo facendo nel frattempo, compresi gli studi inconcludenti e vari flop commerciali, sono parte del cambiamento stesso. Questo dovrebbe porre l’opinione pubblica in una condizione di entusiasmo nei confronti di nuove tecnologie “intermedie”, che non sono -quantomeno al momento- la soluzione del problema, ma contribuiscono a tracciare il percorso verso la stessa.
Vediamolo brevemente, dopo aver fatto il punto sulle emissioni derivanti dalla combustione di carburanti di origine fossile. Come già sappiamo, diesel e benzina, se bruciati, rilasciano nell’ambiente molte sostanze che ledono allo stesso e in primis alla biosfera. Tra gli esponenti di questa categoria si sentono spesso nominare: gli ossidi di azoto (NOx), gli ossidi di zolfo (SOx) e l’ultranoto “particolato”, che generò non poca preoccupazione con la faccenda, fruibile a tutti, del FAP (filtro antiparticolato). Un composto che invece non rilascia la maggioranza di questi composti tossici, risulta biodegradabile, non deriva dai combustibili fossili, e che si può considerare un cugino del diesel, è appunto il Biodiesel.
Il biodiesel fa parte della classe dei biocarburanti, ovvero tutti quei carburanti derivanti da trattamenti su biomasse. Nello specifico, per la produzione di biodiesel si possono trattare oli vegetali (anche esausti,
come l’olio di frittura), grassi di origine animale, e biomassa cellulosica. Operativamente parlando, oli vegetali e grassi sono perlopiù costituiti da trigliceridi derivanti dall’esterificazione del glicerolo con tre acidi grassi. Per ottenere il biodiesel si può procedere ad una transesterificazione del trigliceride mediante metanolo in presenza di un catalizzatore. Da questa semplice reazione otteniamo in parti eguali glicerolo e biodiesel. Il fatto interessante è che il glicerolo ottenuto, pur non essendo di qualità eccelsa risulta tutt’altro che uno scarto, esso infatti ha applicazioni in vari settori industriali: dalla cosmetica al cibo, dall’industria farmaceutica alla diagnostica.
È perciò un co-prodotto di buon valore e non uno scarto nel senso letterale del termine. Parlando del biodiesel invece, impiegato come carburante è apprezzabile principalmente perché non contribuisce all’effetto serra e non contiene benzene et similar oppure zolfo, dunque non è né cancerogeno né tossico. Dal punto di vista motoristico invece, ha un buon potere detergente e lubrificante sugli organi meccanici e non dà luogo ad autoaccensione, seppur contenga una maggior quantità di cetano rispetto al diesel, il che si riflette però in una maggior incendiabilità a fronte dell’iniezione nel motore a combustione interna.
Purtroppo, rispetto al diesel da fonti non rinnovabili, ha anche qualche difetto, ovvero: a causa del minor potere calorifero dà una perdita di potenza al motore del 7%, nei veicoli di fabbricazione non recente (inteoria <1992) crea problemi di vario genere agli organi in gomma, deteriorandoli. Ovviamente poi vi sono tutte le note conseguenze derivanti dall’utilizzo intensivo di biomasse, che si ripercuotono sull’ecosistema – in particolare sulla biodiversità- e sul mercato delle materie prime nel Terzo Mondo. Come il diesel invece, produce particolato atmosferico una volta combusto. Da verificare se quest’ultima questione è risolvibile mediante sistemi già esistenti ed attualmente impiegati sui moderni motori diesel. Da verificare anche il suo utilizzo non in miscela con diesel normale, nei motori delle autovetture attuali.
Vi sono infatti ancora pochi studi in merito, seppur il parere degli ingegneri sia ottimista sulle possibili
conseguenze, visto che Il BD 100% risulta già in uso nell’autotrazione pesante, con Scania che ad esempio, già dal 2013 commercializza motori del genere con risultati ottimi. In conclusione dunque, possiamo dire che sí, siamo di fronte ad una ottima alternativa al diesel, tuttavia questa necessiterebbe ancora di adattamenti commerciali, produttivi e applicativi, perché possa essere utilizzata a pieno regime come sostituto nelle applicazioni tecniche necessarie. In proposito, c’è grande fermento nel mondo dell’ingegneria chimica e della chimica industriale, per studi come quello che Eni sta portando avanti cercando di produrre biodiesel migliore dall’alga Chrysochromulina tobin. l biodiesel per le automobili, al momento è comunque utilizzato in miscela con il diesel, ed è identificabile tramite la sigla “BD”, di norma accompagnata da un numero che ne definisce la percentuale presente sul totale (es.BD20).