Dal capitolo 11 del romanzo “Viaggio al centro della Terra”, di J.Verne – fino alla rottura degli stessi – gli apparecchi Ruhmkorff sono imprescindibili compagni di viaggio per i tre esploratori diretti nelle viscere della Terra.
Così il celebre scrittore francese descriveva l’apparecchio Ruhmkorff nei suoi romanzi scientifico-avventurosi, 1864-1865. Gli apparecchi Ruhmkorff, saranno per i tre protagonisti le uniche fonti di luce da quando decideranno di calarsi nella bocca del vulcano Sneffels, in Islanda. Gli apparecchi compariranno anche un anno più tardi, nel romanzo “Dalla Terra alla Luna”, assieme ad altri strumenti oggi desueti e/o pericolosi, ma all’epoca imprescindibili per avventure di questo tipo.
A causa di vecchi e dubbi appunti di uno sconosciuto scienziato, i tre partiranno alla volta del centro del globo, e la loro vita sarà inesorabilmente in mano agli apparecchi di Ruhmkorff e ad altri piccoli strumenti come cronometro, barometro, termometro etc. Un pull di oggetti che all’epoca costituiva l’unico mezzo trasportabile fuori da un laboratorio e utile a trarre conclusioni scientifiche, ipotizzare principi e orientarsi in ambienti ostili.
Se pensiamo ad esempio alle esplorazioni oltreoceano, o a quelle sotterranee, oltre a carte approssimative, non vi erano chissà quali mezzi cui appoggiarsi, soprattutto in caso di necessità. La bobina a induzione, alias rocchetto di Ruhmkorff, è alla base dell’apparecchio citato da Verne. All’epoca, il rocchetto era considerato un oggetto rivoluzionario, e ha contribuito grandemente allo sviluppo di molti altri strumenti basati su Legge di Faraday et similar.
H. D. Ruhmkorff è stato un elettromeccanico tedesco dalla carriera piuttosto curiosa. Non essendo benestante, dopo le scuole elementari dovette cercarsi un impiego. Lavorò presso varie officine tecniche, e si interessò prontamente ai lavori di grandi scienziati come Davy, Faraday, Herschel e Brewster. Raggiunta l’età adulta ed una notevole esperienza, si mise in proprio, e a Parigi, si dedicò alla costruzione di strumenti utili nel campo della fisica sperimentale. Talento e impegno gli valsero clienti come i grandi professori e i ricercatori della Sorbona.
La realizzazione del rocchetto valse a Ruhmkorff la croce de l’Ordre national de la Légion d’honneur – corporazione volta a premiare il merito sociale o militare istituito da Napoleone Bonaparte – che costituiva al tempo la massima onoreficenza concessa dalla Repubblica francese. Ad oggi l’ordine è ancora in vigore, ed al vertice vi è il Presidente della Repubblica francese. Nel ’64, per la bobina a induzione, Ruhmkorff si aggiudicò anche il premio Volta di 50.000 franchi, istituito sempre da Napoleone III, che premiava le straordinarie scoperte scientifiche legate all’elettricità.
Ruhmkorff costruì il suo rocchetto ad induzione nel 1851. In realtà si dice non sia stato il primo a brevettare la bobina a induzione, attribuita poi a N.Callan, 1836. Tuttavia la versione di Ruhmkorff, migliore delle precedenti, ha riscosso molto più successo di quella del filosofo irlandese. Il funzionamento di questo meraviglioso aggeggio si basa sulla legge di Faraday (1831) o dell’induzione elettromagnetica. Ricordiamola brevemente.
Consideriamo una superficie delimitata da un circuito elettrico. Poniamo anche che il flusso del campo magnetico che attraversa questa superficie sia variabile nel tempo. Secondo Faraday, nel suddetto circuito, si genera una grandezza corrispondente alla differenza di potenziale massima ai capi di un generatore sconnesso dal circuito. Questa grandezza indotta, detta f.e.m, forza elettromotrice, sarà pari all’opposto della variazione temporale del flusso.
Dunque il rocchetto sfrutta i periodi variabili e a basso potenziale, per trasformare la corrente continua, in corrente alternata ad alto potenziale. L’intensità del fenomeno dell’induzione è direttamente proporzionale all’area dei due circuiti coinvolti e alla permeabilità del mezzo in cui si collocano.
Il rocchetto di Ruhmkorff si compone di un nucleo ferromagnetico, attorno al quale sono avvolti un circuito primario ed uno secondario, ovvero due bobine, solenoide in rame. Il primario è alimentato da una batteria e include un interruttore con in serie un sistema a martelletto. Quest ultimo, al magnetizzarsi del nucleo secondo il passaggio di corrente, interrompe ogni volta il contatto. Ad ogni interruzione corrisponde una magnetizzazione del nucleo, con il martelletto che si riposiziona chiudendo il circuito. Così, nel circuito secondario, che ha molte più spire del primario ed è a filo sottile, circola corrente continua, alternativamente in un verso e nell’altro.
Abbiamo che il circuito primario, percorso da una corrente generatrice del campo magnetico, funge da induttore e accumula energia nel campo magnetico associato. Il secondario, secondo la legge di Faraday, è attraversato da un violento impulso ad alta tensione, generato interrompendo la corrente, grazie al brusco calo del campo magnetico generato.
Ad un nucleo di fili di ferro è avvolto il solenoide primario, collegato a un interruttore in grado di interrompere il flusso di corrente. Il secondario invece, di norma è avviluppato in bobine sopra al primario, ha un numero di spire molto maggiore, e costituisce il circuito dove la tensione è indotta. Questa tensione è conseguente alla rapida variazione del flusso magnetico a livello del nucleo.
La lampada citata da Verne è dunque un applicazione del rocchetto visto sopra. È stata progettata da Camille Benoît e da Alphonse Dumas. Questo strumento, nato per il lavoro in miniera, costituiva la forma primitiva della nostra torcia portatile. Sostanzialmente si componeva di un tubo di Geissler, eccitato dalla bobina di di Ruhmkorff, collegata a sua volta ad una batteria. Il tubo di Geissler è semplicemente un tubo di vetro contenente gas rarefatti, sigillato ed evacuato, che porta un elettrodo per ciascuna estremità.
Se tramite i due elettrodi facciamo scorrere elettricità internamente al tubo, questa ionizza il gas in esso contenuto. Da quí, secondo i fenomeni della scarica a bagliori di gas e della fluorescenza, si genera luce. La seconda versione, utilizzava l’azoto, mentre la prima anidride carbonica. A causa della decomposizione di quest’ultima, si optò per l’N, che produceva una luce rossa invece che bianca. Oltre a questo si iniziò ad impiegare un vetro ai sali di uranio, verde fluorescente.
Di nuovo abbiamo dimostrato come la scienza e le sue teorie ci abbiano accompagnati fin dagli albori della civiltà, e come molte delle applicazioni che oggi utilizziamo quotidianamente e senza rifletterci, siano il – non semplice – frutto di lungimiranti studi scientifici.