Per bioluminescenza intendiamo un tipo di reazione che implica l’emissione di radiazione elettromagnetica nel visibile e nel vicino infrarosso, da parte di determinati organismi viventi. La bioluminescenza è da considerarsi un caso particolare di un altro fenomeno, la luminescenza. Quest’ultima si caratterizza per l’emissione di radiazione senza che venga emanato calore. Perché si manifesti luminescenza, deve esserci una transizione elettronica, alias “salto quantico“. Ciò significa che degli elettroni, portatori di carica, passano da uno stato energetico maggiore – più eccitato, in gergo – ad uno minore, rilasciando un fotone (Semplificando molto…luce!).
Di norma, gli elettroni si eccitano se vengono esposti a fonti di calore, ma può succedere che la causa scatenante sia invece un insieme di reazioni chimiche o biochimiche. Nel secondo caso, parliamo di chemiluminescenza, nel terzo di bioluminescenza, piuttosto che di luminescenza.
La risposta è ovviamente sì, è il caso in cui a emettere luce siano organismi viventi, ma ricordiamo cosa s’intende per chemiluminescenza. Abbiamo detto che in questo caso sono delle particolari reazioni chimiche o biochimiche a far sì che gli elettroni si eccitino. Normalmente le reazioni scatenanti sono semplici ossidazioni catalizzate da un enzima, detto luciferasi. Ricordiamo che un enzima catalizzatore in una reazione chimica non prende parte alla reazione stessa, ma la velocizza enormemente. Il tutto è anche accompagnato da un pigmento, detto luciferina.
Quindi, in seguito a queste reazioni catalizzate, si ha emissione di radiazioni elettromagnetiche, a causa del “salto verso il basso” di un elettrone. Siccome i livelli energetici tra i quali “salta” l’elettrone, possono assumere solo determinati valori – sono discreti, in gergo – l’elettrone si muove a scatti fra l’uno e l’altro livello. Ad ogni scatto verso il basso, l’elettrone perde un fotone, mentre se desidera farne uno verso l’alto, e quindi eccitarsi, deve “prenderne” uno. Nel secondo caso, è necessario fornirglielo, ad esempio illuminandolo, che equivale a bombardarlo di fotoni. Per finire, l’energia liberata da queste transizioni, sarà pari alla differenza tra le energie dei livelli coinvolti.
Sembrerà assurdo, ma ogni singolo fotone prodotto richiede un impiego di energia molto elevato, paragonabile a quella prodotta dalla rottura di 8 molecole di ATP. L’ATP, adenosina trifosfato, non è altro che la molecola fondamentale alla vita, e contiene:
Una base azotata, l’adenina
Il ribosio (uno zucchero pentoso)
Tre fosfati, nello specifico l’alfa, il beta e il gamma, legati fra loro da legami ad alta energia, ovvero difficili da rompere.
È proprio alla rottura dei legami fosfoanidridici – processo esoergonico – tra i tre fosfati che viene rilasciata l’elevata energia necessaria per la realizzazione di processi indispensabili alla cellula e dunque alla vita. Fra questi ricordiamo la sintesi delle macromolecole (proteine, carboidrati…), la contrazione muscolare e via dicendo. Il nucleotide ATP è quindi lo strumento dal quale la cellula estrae energia per realizzare processi endoergonici.
Dal discorso precedente possiamo intuire quanto sia costoso per un qualsiasi organismo, emettere luce in questo modo. È per questo che la luciferasi, enzima catalizzatore, attiva un protocollo altamente endoergonico per produrre luce, servendosi del coenzima luciferina. Sostanzialmente, il coenzima forma un complesso instabile con l’ossigeno molecolare, utilizzando una molecola di ATP. In seguito la luciferina, ora ossigenata, si rompe e genera anidride carbonica. Questo step dà finalmente vita a una forma eccitata, che rompendosi emette fotoni, e…luce fu!
Perché le bioluminescenze non risultano tutte dello stesso colore? Questo dipende grandemente dal tipo di amminoacidi che circondano la luciferina. Il colore può votare notevolmente, anche mediante la sostituzione di un singolo amminoacido. Per passare da verde-giallo a rosso ad esempio, possiamo sostituire la serina 286 con l’asparagina. Ancora non è chiaro se la variazione cromatica sia indotta dalla sostituzione in sé o dal cambio di flessibilità che essa genera.
Seppur nessun vertebrato superiore sia in grado di emettere luce, a livello più basso della scala zoologica il fenomeno è abbastanza comune. L’ecosistema marino in particolare, pullula di organismi quali anellidi, molluschi, artropodi e batteri in grado di sfruttare la bioluminescenza. Sulla terra ferma invece, determinati insetti, tra i quali le lucciole, alcuni lombrichi, vari millepiedi e centopiedi, oltre che alcuni anfibi, sfruttano questo sistema per vari scopi.
Spesso la bioluminescenza rappresenta un mezzo per spaventare, confondere e fuggire i predatori, altre volte emettono luce diffusamente per mimetizzarsi meglio. Quest ultimo comportamento è caratteristico soprattutto di alcuni pesci. Sentendosi predati, puntano a sfumare il loro contorno quando vengono osservati da un predatore, che si trova in strati d’acqua sotto di loro.
C’è poi chi non usa la bioluminescenza per difesa ma per attacco, ovvero per attirare la preda, che di norma ne è attratta. Per concludere, questo fenomeno può avere anche scopi comunicativi. Le lucciole ad ad esempio, lo utilizzano durante l’accoppiamento, scambiandosi segnali luminosi col partner.
Da quanto detto sopra, emerge che la luciferasi per produrre luce abbisogni solo di ossigeno e ATP, il che, il luogo di sintesi laboratoriale, è discretamente facile da procurare. È per questo che i ricercatori ne hanno usufruito in vari modi. In primis, si può impiegare la luciferasi per stimare la quantità di ATP posseduta da una singola cellula. Se la cellula ne contiene, si illuminerà. In seguito, la luciferasi è stata impiegata anche nel campo della ricerca oncologica. Si osserva infatti che grazie ad essa è possibile individuare ammassi di cellule cancerose, e seguire l’avanzamento del tumore fino alla metastasi. Questo consente di testare terapie anticancro in maniera non invasiva per il paziente. Un progetto europeo risalente a maggio 2020, propone l’impiego della bioluminescenza anche per tracciare i virus nell’organismo, oltre che per colpire selettivamente le cellule malate.
Il luminol, C8H7N3O2 , usato dalla polizia scientifica per rilevare tracce biologiche -anche se rimosse- è un ottimo esempio di chemiluminescenza. Questo composto, reagendo con l’acqua ossigenata, è infatti in grado di emanare luce blu, visibile nell’oscurità per circa 30 minuti. La reazione necessita di essere catalizzata, ad esempio tramite ferro contenuto nel sangue o candeggina usata per pulirlo, da quì l’utilizzo forense. La soluzione in sé, contiene anche un agente ossidante (acqua ossigenata) ed una base, oltre che il 5-ammino-2,3-diidro-1,4-ftalazindione.
Anche nel campo della medicina veterinaria è considerato proficuo l’impiego della chemiluminescenza. In particolare, già nel 2008 si utilizzava questo fenomeno per la diagnosi della brucellosi. Un substrato chemioluminescente determina la presenza degli anticorpi relativi, in siero bovino e ovino. Il test risulta avere sensibilità e specificità elevatissime: rispettivamente 100%-100% per i bovini e 100%-99,8% per gli ovini.