Da sempre, si tende ad addossare gran parte della responsabilità per l’inquinamento marino da plastica, alle nazioni dette emergenti, perlopiù asiatiche. All’inizio di ottobre 2020, la United States Environmental Protection Agency ha effettivamente pubblicato un piano per contrastare l’inquinamento dei mari, citando perlopiù cinque stati orientali. Sarebbero dunque Cina, Thailandia, Vietnam, Indonesia e Filippine i principali imputati per l’inquinamento da plastica delle acque del mondo. A questi paesi, viene infatti attribuita più della metà dei rifiuti plastici annualmente riversata nei mari e negli oceani di tutto il mondo. Tuttavia, pare che i paesi asiatici non siano più sulla vetta della “classifica inquinamento”. Attualmente, come testimonia il relativo studio su Science Advances, sono infatti sovrastati dagli USA, vediamo la questione nel dettaglio.
Da recenti rapporti, emerge che per quanto la Cina sia attualmente il più grande produttore di plastica al mondo, gli USA sono senz’altro i maggiori produttori di rifiuti plastici mondiali. Nel dettaglio, gli States hanno prodotto circa 46 milioni di tonnellate di rifiuti plastici nel 2016. Inoltre, gli stati USA costieri, si collocano terzi nel mondo, per la peggior gestione dei rifiuti nelle aree litoranee, per il loro smaltimento illegale e per il loro abbandono. Anche per quanto riguarda il riciclo, gli States non si dimostrano particolarmente virtuosi, anzi. Meno del 10% dei rifiuti plastici americani viene riciclato, e da più di 30 anni il Paese spedisce all’estero – soprattutto in Cina e negli Stati emergenti – più della metà di ciò che potrebbe riciclare.
Quest’ultimo trend ha subito una drastica riduzione solo quando la Cina, nel 2018, ha cessato l’acquisizione di rifiuti plastici esteri. Questo a fronte dell’impegno verso un modello di economia più green. Da quell’anno, gli USA hanno ridotto le esportazioni di rifiuti plastici del 66%. Anche l’ONU, tramite la Convenzione di Basilea, ha tentato di frenare il commercio di rifiuti plastici, ma gli Stati Uniti al momento non rientrano tra i firmatari.
La dottoressa Kara Lavender Law, della Sea Education Association, è la principale referente di un nuovo studio volto a indagare sul contributo statunitense all’inquinamento da plastica di mari e oceani. Lo studio, a differenza di quelli precedenti, considera anche lo scarico illegale e l’export di rifiuti plastici verso i paesi asiatici. In particolare, team ha scoperto che fino al 3% di tutti i rifiuti di plastica generati negli Stati Uniti è stato disseminato o scaricato illegalmente nell’ambiente. La percentuale può sembrare irrilevante, ma se si considera il tonnellaggio, si raggiunge la quota di 1,25 milioni di tonnellate metriche di rifiuti.
Per quanto riguarda l’export invece, nel 2016 gli Stati Uniti hanno prodotto 3,91 tonnellate di rifiuti plastici, e ne hanno spedite all’estero più della metà. Di queste, l’88% è andato a nazioni prive di risorse adeguate per gestirlo ed elaborarlo correttamente. Il team, ha stimato che gli States abbiano esportato 1 milione di tonnellate di rifiuti. I paesi accettori, le hanno poi disperse nell’ambiente, oltre il confine USA.
Ma perché gli States sono così inclini a disfarsi dei rifiuti vendendoli oltreoceano? Il motivo è molto semplice: gli USA hanno un sistema di riciclo desueto e malfunzionante, assolutamente inadatto alla mole di plastica prodotta e utilizzata. Di questo enorme gap, si è ampiamente discusso, nella recente assemblea delle National Academies of Sciences. Il Congresso, ha incaricato i partecipanti di creare un plan per ottimizzare la situazione rifiuti USA entro la fine del 2021.
D. Trump si è sempre detto scettico difronte a questi rapporti, e continua a sostenere l’innocenza degli USA nell’inquinamento da plastica dei mari e degli oceani. Inoltre, si dice determinato a dar battaglia a tutti quei paesi secondo lui unici responsabili del fatto.
“…come presidente, continuerò a fare tutto ciò che posso per evitare che le altre nazioni trasformino i nostri oceani nelle loro discariche.”
Donald Trump
Ovviamente, questa opera di negazionismo non porta nessun vantaggio, a nessuna nazione. Gli scienziati, sono concordi sul quanto questa propaganda distorca la gravità di una situazione assai più complessa. Ma se da un lato imperversa il negazionismo, dall’altro vi sono le tangibili prese di coscienza della comunità scientifica. Emblematiche, in questo senso, le parole di Amy Uhrin, capo scienziato del programma che si occupa di rifiuti marini per l’agenzia federale NOAA – National Oceanic and Atmospheric Administration. Lo scienziato, ha ricordato pubblicamente quanto il problema non sia strettamente a carico del sud-est asiatico. Sempre la dottoressa Law invece, rivela come nel 2016, gli Stati Uniti pur essendo solo il 4% della popolazione globale, hanno comunque generato il 17% di tutti i rifiuti di plastica.
Per quantificare i dati raccolti, interviene Jenna Jambeck, professoressa di Ingegneria Ambientale presso l’Università della Georgia, e coautrice dello studio. La scienziata indica come le 2,24 milioni di tonnellate di rifiuti plastici prodotte dagli USA nel 2016, sarebbero sufficienti per coprire il prato della Casa Bianca, fino ad un altezza pari a quella dell’Empire State Building. Se non vi sarà un’inversione di tendenza, si stima che i rifiuti di plastica negli oceani triplicheranno in quantità entro il 2040. Per evitare che ciò si realizzi, i leader mondiali dovrebbero agiscano tempestivamente per ridurre il consumo di plastica e ottenere il controllo dei rifiuti prodotti.
Un’altra dimostrazione del fatto che negli USA non dilaghi però solo negazionismo, la fornisce Ted Siegler. L’economista e partner di DSM Environmental Services a Windsor, Vermont, oltre che coautore dello studio, afferma quanto segue:
Affrontiamolo, abbiamo una vasta popolazione costiera. Siamo consumatori massicci di plastica e ciò ha conseguenze. Dobbiamo liberarci dal preconcetto che la nostra unica responsabilità risieda nell’ impedire agli asiatici di scaricare rifiuti nell’oceano.
Ted Sielger
Ovviamente, i paesi in via di sviluppo in Asia ed in Africa, non sono immuni da responsabilità in ambito rifiuti. È altresì palese, lo scompenso fra elevata densità di popolazione e sviluppo tecnologico-industriale. Ciò non consente che siano fisiologicamente in grado di garantire un sistema adeguatamente strutturato per la gestione dei rifiuti. In aggiunta, si considerino anche instabilità e criticità politico-sociali, il crescente appetito verso il consumismo, e il basso tasso di scolarizzazione. Il tutto, non contribuisce certamente a rendere queste nazioni affidabili dal punto di vista del corretto smaltimento dei rifiuti propri e/o importati.
Sono perciò decenni che queste nazioni rivestono il ruolo di principali contributori al problema dell’inquinamento globale.
Tuttavia, di norma, man mano che questi paesi raggiungono adeguati livelli di sviluppo, tendono ad abbracciare le politiche mondiali anti-inquinamento. Questo anche a fronte di vincoli posti da varie organizzazioni come l’Unione Europea. Un esempio di questa transizione è la Cina, che ha registrato una diminuzione del 60% nella produzione di rifiuti e del 51% nell’inadeguata gestione degli stessi. È quindi necessario, che i paesi considerati non più in via di sviluppo, incentivino questi “passaggi”. Dovrebbero poi impegnarsi ad aderire a politiche e patti come l’Accordo di Parigi, da cui gli USA si sono ritirati il 4 novembre 2020.