È importante contestualizzare il dibattito e le idee che seguono, poiché sia Alessandro Volta che Luigi Galvani, erano figli dell’epoca del post-dispotismo illuminato, sul tramontare della Rivoluzione Francese. Dunque, per capire i programmi di ricerca dei due scienziati, è opportuno inserire il dibattito nel contesto scientifico, culturale ed epistemologico di fine Settecento. L’epoca di appartenenza del dibattito Volta – Galvani, segnò anche il destino delle loro teorie e dei loro strumenti, che nonostante l’enorme successo, stentarono ad affermarsi, in contrasto com’erano con gli standard del tempo.
Negli anni in cui Galvani rivolse le sue attenzioni allo studio del fluido animale – poi detto galvanico – cioè all’elettricità, Bologna era sotto l’egida del Regno Pontificio. Ciò significa che ogni ricerca, ogni pubblicazione, ed ogni teoria sviluppata da medici e/o fisiologi, era attentamente revisionata da ecclesiastici teoricamente competenti in quei campi. Questo perché si cercava di intercettare un qualche studioso che per svista o per merito, fosse riuscito ad individuare la cosiddetta essenza della vita, altrimenti detta natura dell’anima.
Luigi Galvani (1737-1798) è stato un anatomista e fisiologo bolognese. Galvani, che per formazione era medico, al culmine della sua carriera entrò in contatto con una neonata disciplina. Questa, si occupava dello studio di un particolare fluido: l’elettricità. Galvani iniziò i suoi studi ricercando l’elettricità nel mondo animale, e vista le conoscenze dell’epoca, distinse erroneamente l’elettricità organica da quella inorganica. Nel 1791, a fronte di 10 anni di ricerche, pubblicò un’opera rivoluzionaria per il mondo della fisiologia: De vibus electricitatis in motu muscolari Commentarius. Nella pubblicazione, è svelata un’importantissima scoperta: le rane, anche dopo la morte e lo squoiamento, sono in grado di muovere profondamente e per lungo tempo le zampe, qualora si colleghino determinati muscoli e nervi.
Il tutto, apparentemente concordava con le teorie di Galvani stesso, che infatti sosteneva l’esistenza di un’elettricità specifica degli animali, con origine nel cervello, e che tramite nervi giunge e si immagazzina nei muscoli. Grazie alla riproducibilità degli esperimenti di Galvani, il suo lavoro verrà notato da numerosi scienziati dell’epoca. L’anno successivo, la seconda pubblicazione del medico bolognese suscitò l’interesse di un suo fiero avversario: Alessandro Volta. Le teorie all’avanguardia di Volta, fecero sfigurare Galvani, e ne nacque un’accesa diatriba scientifica.
Le deduzioni del chimico-fisico comasco Alessandro Volta (1745-1827) invece, derivavano da un approfondito studio del mondo inorganico. Inoltre, al contrario di Galvani – genio, ma fervente cattolico, chiuso nella sua Bologna – era solito avvalersi del confronto con le più importanti Accademie europee. Secondo Volta, metalli e conduttori umidi, erano dei motori di elettricità, e non erano dunque gli organismi viventi, a dispensarla. Questa concezione, traslata sugli esperimenti di Galvani, attribuiva la generazione di elettricità non ai muscoli degli anfibi, bensì agli archi metallici che li collegavano. Ne deriva, che secondo le teorie di Volta, non potevano esistere differenti tipi di elettricità, poiché questa era semplicemente prodotta nell’attimo di contatto tra due diversi conduttori qualsiasi, e dunque totalmente controllabile dall’uomo.
Fu così che i due scienziati inaugurarono un lungo e seguitissimo dibattito sull’origine e le forme dell’elettricità. Durante le discussioni, Galvani mostrava ai colleghi che anche in assenza di metalli, le rane morte e squoiate si muovevano comunque.
Volta invece, rivelava la presenza di corrente dovuta al contatto bimetallico, senza avvalersi delle rane. Se dunque Galvani porta avanti il suo programma di ricerche basandosi sull’allora elettrostatica classica, Volta tenta di riformarla, introducendo il concetto di non specificità della stessa. Fu così, che mentre Galvani fondava l’elettrofisiologia, Volta scopriva il potenziale di contatto, concetto che poi lo porterà ad inventare la pila.
Proprio Mary Shelley, poco tempo prima di pubblicare Frankenstein, aveva assistito a Londra a una serie di esperimenti su salme umane eseguiti da Giovanni Aldini, nipote e seguace di Galvani. Gli studiosi, applicavano ai cadaveri più terminali elettrificati, in varie parti del corpo. Alla chiusura del circuito, l’elettricità attraversando i corpi pareva ridestarli, mediante convulsioni e contrazioni muscolari. A seconda dell’intensità della scarica elettrica si potevamo osservare fenomeni più o meno profondi, fin anche al sollevamento degli arti, con pesi di più kili collegati. Addirittura, le palpebre potevano aprirsi, ed i corpi produrre movimenti tanto intensi da sedersi, come fossero redivivi. Fu proprio questo tanto deprecabile quanto necessario – per fini scientifici – spettacolo, ad ispirare M. Shelley nello scrivere di un folle scienziato, che aveva assemblato e portato alla vita il mostro del primo vero romanzo fantascientifico del mondo.