Teorie complottiste, i bias spiegano perché hanno tanto successo
Uno dei pregiudizi che ci porta a credere alle teorie complottiste è il bias di proporzionalità. Chi cade in questo tipo di tranello ritiene che grandi effetti derivino esclusivamente da grandi cause.
Possiamo definire una teoria complottista, come una accusa di cospirazione, implausibile e non verificata, in base alla quale eventi importanti sono il risultato del disegno di un potente gruppo di persone.
La storia dell’umanità, ci ha abituati a complotti reali, spesso posti in essere da gruppi privilegiati di cittadini o da governanti, classi elitarie.
Le teorie complottiste sono però un qualcosa di differente, in quanto propongono di spiegare determinati fenomeni o avvenimenti – per i quali sono già note spiegazioni razionali e documentate – in maniera pseudo-scientifica ed irrazionale, ma anche semplice. Abbiamo quindi eterni dibattiti complottisti su Terra piatta e allunaggio, così come sul crollo delle Twin Towers.
I fattori determinanti nella credenza alle teorie complottiste
Ma perché è così facile che le persone credano ai complotti, pur essendo questi basati su teorie e/o ipotesi completamente indimostrate? I fattori, che possono anche ricorrere congiuntamente, sono molteplici. Le persone che credono nelle teorie complottiste possono pensare di essere più intelligenti di altre, o di avere “la mente aperta”.
Talvolta, credere in una teoria complottista, permette alle persone di socializzare, facendo parte di un gruppo che ha un credo comune. Spesso, anche la sfiducia nelle istituzioni, unitamente ad una scarsa cultura di base, porta a credere alle teorie complottiste. In questo caso, qualunque spiegazione o chiarimento proveniente della medesime istituzioni, non viene accolto, anzi, rinforza la credenza nel complotto stesso (c.d. “backfire effect“).
Molto spesso, oltre ai fattori di cui sopra, sono da considerarsi pregiudizi detti bias, in grado di condizionare inconsciamente le capacità decisionali delle persone. Essi sono una naturale componenti del pensiero umano, ed infatti agiscono anche sulle azioni di coloro che, pur non essendo vittime di teorie complottiste, devono prendere decisioni alto calibro o presunte tali.
In particolare, il bias di proporzionalità induce le persone a credere che grandi effetti derivano da grandi cause. Numerosi sono gli studi sull’argomento, i quali portano talvolta a risultati totalmente inaspettati.
Bias di proporzionalità: lo studio
In uno dei tanti studi relativi, è stato esposto questo scenario: il computer di Adam, non era più funzionante. Adam aveva quindi perso l’elaborato necessario per la sua laurea. In una primo proseguo della vicenda, il professore aveva dato una proroga per la consegna dell’elaborato, per cui Adam era riuscito a laurearsi nei tempi previsti. In una seconda continuazione invece, il professore non aveva concesso la proroga, per cui Adam non si era laureato in tempo.
Ai partecipanti allo studio era poi stato chiesto se secondo loro il guasto del computer derivasse:
- Da un malfunzionamento della ventola di raffreddamento (causa piccola)
- Da un virus che aveva infettato il computer (causa grande).
Le risposte dei partecipanti propendevano, nel caso della prima continuazione, per la causa relativa al malfunzionamento della ventola. Di contro, nel caso della seconda continuazione, nella quale Adam non riusciva a laurearsi, i partecipanti reputavano più probabile che causa del guasto fosse il virus informatico.
Emergeva quindi la correlazione piccola causa – piccola conseguenza.
La grande causa, cioè il virus informatico, veniva invece correlata con la grande conseguenza.
Si noti, che entrambe le cause avevano comunque determinato il guasto del computer, con conseguente perdita dell’elaborato di Adam, dunque avevano logicamente lo stesso peso.
Ciò significa, in buona sostanza, che la correlazione è assolutamente illusoria, visto che i problemi di Adam derivano dal guasto del computer, a prescindere dalla causa che lo aveva determinato.
Il caso dell’assassinio Kennedy
Ulteriori studi e dati empirici hanno poi evidenziato che nel caso di attentati di grosso calibro, se l’assassinio riesce, allora si è più propensi a credere che l’omicida facesse parte di un complotto. Se l’assassinio, invece, non riesce, si più propensi a credere che il mancato omicida fosse un attentatore solitario. Come già detto, quanto evidenziato ci risulta sia da alcuni studi, sia dalla realtà di alcuni fatti storici.
Infatti, l’assassinio del Presidente Kennedy a Dallas il 22 novembre 1963 è chiamato la madre di tutte le teorie complottiste. Ancora oggi, dopo decenni, molti americani credono che ad ucciderlo sia stato un complotto ordito da numerosi gruppi interessati alla sua morte. Il fallito attentato al Presidente Reagan da parte di John Hinckley il 30 marzo 1981 a Washington è stato oggetto di poca attenzione da parte dei complottisti.
Nell’assassinio del Presidente Kennedy, il bias di proporzionalità agisce in maniera molto forte e questo se vogliamo, può essere anche naturale. La domanda che ci si pone infatti è: “Come è possibile che una nullità come Lee Harvey Oswald abbia ucciso l’uomo più potente del pianeta?”.
Quindi, siccome il bias di proporzionalità ci induce a pensare che sia impossibile, deve esserci stato un complotto, un gruppo di persone determinate e competenti, capaci di organizzare l’assassinio dell’uomo più potente al mondo. Infatti, numerosissime sono le teorie complottiste che accusano mafia, FBI, CIA, KGB, il vice presidente Johnson -poi diventato presidente – o gruppi misti composti dai predetti soggetti.
La realtà storica è però un’altra, Lee Harvey Oswald, ex marine e buon tiratore, agì da solo e non vi fu nessun complotto. In questa ed altre vicende, una piccola causa ha determinato enormi conseguenze.
Articolo a cura di Ciro D’Ardia.