Come Maxwell completò e mise in discussione la meccanica classica
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Verso la fine del Settecento e l’inizio della seconda metà dell’Ottocento, i fenomeni elettrici e magnetici divennero oggetto di assidue analisi sperimentali e di ricerca teorica da parte di molti fisici del tempo. Faraday, in quel periodo, avviò un processo di unificazione dell’elettricità col magnetismo, che venne sostenuto soprattutto dalla scoperta accidentale di Ørsted (fisico e chimico di cittadinanza danese) riguardante il fatto che la corrente elettrica che circola in un circuito genera un campo magnetico.
Questa scoperta fu casuale e accadde durante una conferenza tenuta dallo stesso Ørsted: quando chiuse l’ interruttore di un circuito, l’ago di una bussola nelle vicinanze deviò dalla sua direzione abituale. Questo implicava che, sempre nelle vicinanze, dovesse esserci una variazione del campo magnetico, o comunque un nuovo campo magnetico, che interferisse con la bussola.
Faraday prese nota di questa avvincente scoperta, e suppose che anche a partire da una variazione del flusso del campo magnetico si potesse generare un campo elettrico: questa è la legge dell’induzione elettromagnetica, o di Faraday-Neumann. Successivamente, il fisico estone Lenz giustificò da un punto di vista più fisico il segno meno che si trova al secondo membro della relazione nota come legge di Faraday-Neumann-Lenz (la legge di Lenz è un corollario della legge di Faraday-Neumann):\[f_{em} = -N\dfrac{\Delta \Phi (\vec{B})}{\Delta t}\]
Questa relazione esprime il fatto che la corrente elettrica indotta si oppone alla variazione che l’ha causata. Inoltre, questa corrente si comporta come se venisse generata da una forza elettromotrice indotta, la cui intensità ed esistenza dipendono dalla variazione temporale del flusso del campo magnetico.
Ma affinché potesse esserci l’unificazione dell’elettricità col magnetismo, tutte queste leggi, come la legge dell’induzione elettromagnetica stessa, necessitavano di un intervento di generalizzazione e di disposizione in una teoria unificata ed elegante. Ed è qui che ricordiamo James Clerk Maxwell, fisico scozzese nato nel 1831 e morto nel 1879, che mise in atto un processo di generalizzazione delle leggi già note ma anche di revisione di quest’ultime (basti pensare alla corrente di spostamento).
Maxwell pubblicò i suoi lavori in una serie di articoli risalenti al periodo di tempo che intercorre tra il 1865 e il 1868, ma fu oltre il 1868 il momento in cui pubblicò il suo capolavoro (che viene ancora oggi considerato uno dei più grandi trattati di natura scientifica): A Treatise on Electricity and Magnetism (1873). La teoria elettromagnetica di Maxwell è costituita da quattro eleganti equazioni che permettono di descrivere in modo preciso i fenomeni elettromagnetici (ma, facendo parte della meccanica classica, tale teoria convive con i suoi limiti).
La misurazione della velocità della luce
Oltre a prestarsi alla descrizione dei fenomeni elettromagnetici, la teoria di Maxwell prediceva che nel campo magnetico combinato potevano verificarsi perturbazioni simili a onde e che queste perturbazioni si sarebbero propagate ad una velocità fissa: quindi le onde radio o anche la luce stessa, in accordo con la teoria di Maxwell, si propagano ad una certa velocità costante. La misura della velocità della luce è stata oggetto di numerosi esperimenti. Si pensi all’esperimento condotto da Galileo Galilei, che chiaramente non restituì alcun valore, facendo però intuire che si trattasse di una velocità molto grande.
Il suo esperimento era molto semplice: lui ed un suo allievo si posizionarono su due collinette (o due torri, non si è certi su questo dato), e ad un certo istante t = 0, Galileo scoprì la sua lanterna, dirigendola verso l’allievo che, quando vide la luce, fece allo stesso modo, e rivolse la sua lanterna scoperta verso il maestro. Possiamo ben notare che concettualmente l’esperimento era molto semplice: il vero problema stava nella misurazione del tempo impiegato dal segnale luminoso per essere recepito. Chiaramente questo dato non potrebbe essere considerato concreto, in quanto dovremmo considerare anche il tempo di risposta umano, che è circa 200 ms, e quindi possiamo dedurre da questo esperimento che la velocità della luce per Galileo avesse un valore molto elevato.
Successivamente, nel 1675, Römer, un astronomo danese, condusse un esperimento che gli permise di determinare che la velocità della luce avesse un valore finito. Questo esperimento si basava sull’osservazione delle eclissi dei satelliti di Giove, e sul presupposto che i ritardi con cui si osservavano quest’ultime erano connessi al variare della distanza di Giove dalla Terra.
Maxwell e la velocità della luce
Ma ritornando a Maxwell, quest’ultimo riuscì a dimostrare che $\varepsilon_{0}$ e $\mu_0$, ovvero la costante dielettrica nel vuoto e la permeabilità magnetica nel vuoto, determinate attraverso misure elettrostatiche e magnetostatiche, si combinano per fornire il valore della velocità della luce: in questo modo l’elettromagnetismo e l’ottica venivano unificati. Infatti, moltiplicando le due costanti, otteniamo un risultato che è l’inverso del quadrato della velocità della luce.
\[\varepsilon_{0} = 8,854*10^{-12}\dfrac{C^{2}}{N*m^{2}}\]
\[\mu_{0} = 4\pi*10^{-7}\dfrac{T*m}{A}\]
\[\varepsilon_{0}*\mu_{0} = 1,113*10^{-17}\dfrac{s^{2}}{m^{2}}\]
\[c = \dfrac{1}{\sqrt{\varepsilon_{0}* \mu_{0}}} = \dfrac{1}{\sqrt{1,113*10^{-17}}} = 2,998*10^{8} \dfrac{m}{s}\]
Quindi abbiamo visto l’enorme contributo di Maxwell: l’unificazione dell’elettricità col magnetismo, la predizione dell’esistenza delle onde elettromagnetiche e, ancora, l’unificazione dell’elettromagnetismo con l’ottica.
Le onde elettromagnetiche si propagano ad una certa velocità costante. Ma, secondo la teoria di Newton, se la luce doveva viaggiare ad una velocità fissa, si sarebbe dovuto dire relativamente a che cosa si doveva misurare tale velocità. Fu perciò formulata l’ipotesi che esistesse una sostanza chiamata etere, la quale sarebbe stata presente dappertutto, persino nello spazio vuoto. Le onde luminose dovevano propagarsi attraverso l’etere nello stesso modo in cui le onde sonore si propagano attraverso l’aria, e la loro velocità doveva perciò essere relativa all’etere.
Quindi, muovendosi la Terra attraverso l’etere nella sua rivoluzione annua attorno al Sole, la velocità della luce misurata nella direzione del moto della Terra attraverso l’etere (quando però il movimento fosse stato verso la sorgente di luce) avrebbe dovuto essere maggiore della velocità della luce in direzione ortogonale rispetto a tale moto (quando il movimento non fosse stato verso la sorgente di luce).
Nel 1887 Michelson (premio Nobel per la fisica) e Morley eseguirono un esperimento molto accurato: essi confrontarono la velocità della luce nella direzione del moto della Terra con quella ad angoli retti rispetto a tale moto. Con loro grande sorpresa, trovarono che la velocità nelle due direzioni era esattamente la stessa. Questo era già un grande indizio riguardante il fatto che la velocità della luce era finita e che era anche la velocità limite, non superabile.
La teoria di Maxwell e la crisi della meccanica classica.
In quel periodo vi fu un grande dibattito poiché la teoria elettromagnetica di Maxwell si era mostrata problematica nei confronti delle trasformazioni di Galileo Galilei. Infatti, fino a quel momento regnava indisturbato il concetto di tempo assoluto, ma quest’ultimo fu costretto ad abdicare grazie alla teoria della relatività ristretta di Einstein, pubblicata nel 1905.
Einstein sottolineò che l’intera idea di un etere era inutile, purché si fosse stati disposti ad abbandonare l’idea di un tempo assoluto. Ciò che enfatizzava la teoria della relatività ristretta può essere riassunto in due importantissimi postulati:
- le leggi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali;
- la velocità della luce nel vuoto, c = 3*10^8 m/s, è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali ed è indipendente dal moto della sorgente e da quello dell’osservatore.
Con la relatività galileiana, l’invarianza delle leggi valeva solamente per la meccanica, ma con la relatività di Einstein questa invarianza è stata estesa anche alle leggi dell’elettromagnetismo. Tutti gli osservatori dovevano misurare la stessa velocità della luce, per quanto elevata fosse la loro velocità.
Questa semplice idea ebbe delle conseguenze notevoli. Con la relatività galileiana, che, come già scritto in precedenza, andava bene con le leggi della meccanica e per oggetti con velocità piuttosto basse (rispetto a c), rimanevano escluse le equazioni di Maxwell e la descrizione dei moti di oggetti con velocità prossime a c. Quindi Einstein propose una soluzione per queste anomalie assumendo i postulati citati sopra che, essendo incompatibili con le teorie classiche, imporranno una revisione di tutta una serie di idee radicate nel senso comune. Erano le leggi della meccanica ad essere sbagliate, e non la teoria magnetica di Maxwell: occorreva che la relatività di Galileo venisse profondamente modificata.
Dal contributo di Maxwell, dunque, è partita una rivoluzione nel campo della fisica che ha generato la relatività ristretta di Einstein (nel 1916 pubblicherà I fondamenti della relatività generale, una teoria che avrà come fulcro i sistemi non inerziali), ma non solo: tale rivoluzione ha generato anche la meccanica quantistica.
Dalla meccanica classica alla meccanica quantistica
Verso la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la meccanica classica (inclusa la teoria di Maxwell) appariva incapace di descrivere il comportamento della materia e della radiazione elettromagnetica a livello microscopico. Questo portò un certo numero di fisici a pensare che per descrivere questo mondo microscopico fosse necessario fondare una fisica del tutto nuova. Ne nacque una teoria di base unendo ed elaborando un insieme di teorie fisiche formulate nel periodo citato sopra, nota con il nome di teoria dei quanti, nome introdotto da Max Planck basandosi proprio sul fatto che alcune quantità o grandezze di certi sistemi fisici a livello microscopico, come l’energia o il momento angolare, possono variare soltanto di valori discreti, detti quanti, e non continui.
Il termine quanto venne utilizzato per la prima volta da Max Planck nel 1900 per risolvere il problema del corpo nero (ma Planck considerava il quanto solamente un assunto matematico) ma, successivamente, venne ripreso in forma più fondamentale in senso fisico nel 1905 da Einstein per la descrizione dell’effetto fotoelettrico.
In sintesi, la teoria elettromagnetica di Maxwell aveva messo in evidenza i limiti di una concezione esclusivamente ondulatoria delle radiazioni emesse da un corpo. Le radiazioni elettromagnetiche presentano una duplice natura: corpuscolare ed ondulatoria. Tramite questo presupposto, molti fenomeni del mondo microscopico hanno potuto ricevere una descrizione. E menomale che Lord Kelvin (William Thomson) andava sostenendo che l’opera dei fisici era finita e che occorrevano solamente pochi dettagli per avere un quadro completo ed esauriente di come andava il mondo naturale.
A cura di Vincenzo Ingrao Jr