Una delle menti più brillanti della storia della matematica, della scienza e della tecnologia, Leonhard Euler, più noto da noi col nome italianizzato di Eulero. Riconosciuto senza dubbio come il più grande matematico dell’Illuminismo e il più prolifico innovatore nella storia della disciplina, apportando avanzamenti notevoli in quasi tutte le sue branche, dalla geometria al calcolo combinatorio, dall’analisi complessa alle equazioni differenziali, dal calcolo delle variazioni alla teoria dei numeri (in cui si cimentò con successo, provando soprattutto teoremi-congetture che Fermat riportava sui margini di libri famosi, troppo stretti per contenerne la dimostrazione).
Ci sarebbe bisogno di un carrello elevatore per trasportare le circa 25.000 pagine della sua opera omnia. Non c’è quasi settore della matematica che non abbia qualche rilevante teorema attribuito a lui. Così in geometria troviamo il triangolo di Eulero, in topologia la caratteristica di Eulero e nella teoria dei grafi il cammino di Eulero, per non parlare degli integrali di Eulero, dei polinomi di Eulero, della costante di Eulero e così via.
E questo non è tutto, perché c’è un gran numero di risultati matematici, attribuiti tradizionalmente ad altri autori, ma in effetti scoperti da lui e celati tra le pieghe della sua sterminata produzione. È stato detto scherzosamente (ma neppure poi tanto) che c’è un buon motivo per attribuire a leggi e teoremi un nome differente da quello del loro scopritore, ed è che altrimenti metà dell’analisi avrebbe il nome di Eulero.
Fa davvero impressione notare che Eulero raggiunse risultati eccezionali, per qualità e quantità, nonostante la perdita della vista dell’occhio destro nel 1730, e anche quella dell’altro occhio, nel 1771. Come, una generazione più tardi, la sordità non avrebbe impedito a Ludwig van Beethoven di scrivere pagine di musica potente e straordinaria, così la cecità non riuscì a contenere il flusso impetuoso della creatività matematica di Eulero. Non aveva bisogno della vista per penetrare a fondo gli argomenti trattati, riusciva a vedere con gli occhi della mente.
Nel 1734 Eulero risolse il celebre “problema di Basilea”, problema che aveva resistito a lungo agli attacchi di famosi matematici di quella città (in primis, i fratelli Bernoulli). Si trattava di calcolare la somma della serie numerica i cui termini erano i reciproci dei quadrati dei numeri interi positivi: uno più un quarto più un nono più un sedicesimo, e così via. Con una intuizione di proporzioni “euleriane”, scoprì che la soluzione era “π al quadrato diviso sei”: il rapporto fra la circonferenza e il diametro mostrava un legame misterioso e inatteso con i numeri interi e i loro quadrati. Eulero applicò una regola valida per i polinomi “finiti” a quelli “infiniti”, o sviluppi in serie. Come Newton, era convinto della persistenza dei modelli: se una proprietà era valida per il caso finito, perché non avrebbe dovuto esserlo per quello infinito?
Noi oggi sappiamo che questo modo di ragionare è piuttosto pericoloso, che l’estensione di formule dal caso finito a quello infinito richiede una cautela molto più grande di quella usata da Eulero. Probabilmente fu fortunato o la sua intuizione fu particolarmente forte. Fatto sta che l’estensione si rivelò vera e consentì ad Eulero di raggiungere il suo obiettivo.
Il problema di Basilea fu proposto per la prima volta da Pietro Mengoli nel 1644. A quel tempo Mengoli insegnava all’Università di Bologna per cui sarebbe più preciso parlare di “problema di Bologna”. Tuttavia fu Jakob Bernoulli a portare il problema all’attenzione di un vasto pubblico e si impose così come il “problema di Basilea”.