Godfrey Hardy: la storia del matematico che non riusciva a guardarsi allo specchio
Quando aveva due anni, Godfrey Harold Hardy (1877-1947) scriveva i numeri fino ad arrivare ai milioni, tipico segnale di talento matematico, e più tardi, in chiesa, si divertiva a scomporre in fattori primi gli inni: Inno 126? È 2x3x3x7. Terribilmente timido e impacciato, a volte alla scuola elementare dava volontariamente risposte sbagliate agli esami per risparmiarsi il tormento di riuscire primo ed essere così costretto a passare davanti a tutta la scuola per ritirare un premio.”Eccessivamente fragile”, lo descrisse in seguito un suo amico, il romanziere C.P. Snow. “Era come se fosse nato con tre strati di pelle in meno”. Netti, numerosi, impetuosi i suoi entusiasmi, le sue irritazioni e le sue idiosincrasie: odiava la guerra, il clima inglese, i politici come categoria, i cani, gli orologi, le penne stilografiche e i telefoni; amava il sole, i gatti e i cruciverba del “Times” di Londra.
Godfrey Hardy: il cricket
“317 è un numero primo, non perché lo pensiamo noi, o perché la nostra mente è conformata in un modo piuttosto che in un altro, ma perché è così, perché la realtà matematica è fatta così.“
Godfrey Hardy
Se il suo primo amore era la matematica, il secondo senza dubbio era il cricket. La passione per questo sport era di proporzioni quasi patologiche: lo seguiva, lo studiava, ci giocava, ne analizzava le tattiche e stilava una classifica dei campioni, arrivando persino a disseminare i suoi articoli di matematica di metafore tratte dal cricket.
“Il problema può essere compreso più facilmente se espresso nel linguaggio del cricket”, scrisse in una rivista di matematica svedese: gli stranieri non riuscirono neppure lontanamente ad afferrarlo. Il suo modo migliore di lodare una dimostrazione era di classificarla “nella classe di Hobbs”, lasciando gli ignoranti a credere che si trattasse del filosofo Thomas Hobbes invece del mitico giocatore di cricket Jack Hobbs.
La fobia dello specchio
Hardy non sopportava di essere fotografato, e nemmeno di guardarsi allo specchio, al punto che si faceva la barba al tatto. Le sue stanze al college erano prive di specchi, e ogni volta che andava in albergo, la prima cosa che faceva era coprirli con un asciugamano. Non si piaceva affatto e riteneva di avere una faccia da distrofico.
Non era vero. Aveva gli occhi color ghiaccio e un volto dai tratti delicati. Persino dopo aver superato i trent’anni, il suo aspetto era straordinario e così giovanile che spesso si vedeva rifiutare la birra e a volte, mentre pranzava con altri docenti del Trinity College di Cambridge, veniva scambiato per uno studente.
Anche a cinquant’anni passati, aveva l’aspetto di un bel ragazzo. Snow ammirava la sua “tinta bronzea da pellirossa” e la sua “bella faccia, con gli zigomi pronunciati e il naso sottile, una faccia dai lineamenti spirituali e austeri”. Hardy non credeva in Dio. Era un ateo fervente e lo era stato persino da bambino.
Una volta, mentre passeggiava nella nebbia con un ecclesiastico, vide un ragazzo con una cordicella e un bastoncino. L’ecclesiastico colse al volo l’occasione per paragonare la presenza di Dio ad un aquilone: si percepisce ma non si vede.“Nella nebbia”, disse al giovanissimo Hardy, “non puoi vedere volare l’aquilone, ma senti tirare la cordicella. Ma nella nebbia non c’è vento e nessun aquilone può volare, concluse Hardy.