Le prime mascherine che fermarono la peste in Manciuria
Nato a Penang nel 1879 da una famiglia cinese, dopo gli studi a Cambridge, Wu Lien-teh fu nominato vicedirettore del China’s Imperial Army Medical College. In questa posizione, nel 1910 si trovò ad affrontare una terribile epidemia di peste che colpì la Manciuria, e che avrebbe provocato nel giro di due anni 60.000 vittime. Dopo millenni di false piste, si era compreso che la malattia si trasmetteva soprattutto attraverso le pulci, le quali pungono prima un ratto infetto e poi un essere umano, trasmettendogli il batterio. Tuttavia, come il medico malese intuì, quella che stava imperversando su quel territorio non era un’epidemia della comune peste bubbonica, ma di una differente forma della malattia: la peste polmonare, nella quale il batterio infetta le vie respiratorie, trasmettendosi per via aerea. Ecco la storia delle prime mascherine e di come hanno fermato la peste.
Prime mascherine: uno strumento di fondamentale importanza
Fu per combatterne la diffusione che il dottor Wu inventò le prime mascherine che possiamo ritenere moderne: erano formate da due strati di garza, con in mezzo dell’ovatta. Facendole indossare al personale medico, a coloro che dovevano occuparsi dei corpi, ai malati e a chiunque potesse venire a contatto con loro, contribuì in modo determinante alla fine dell’epidemia, pur incontrando l’opposizione di quanti consideravano poco plausibile che in certi casi la malattia potesse propagarsi attraverso le vie respiratorie.
Per questo motivo, nel 1935 Wu Lien-teh fu candidato al Nobel. Non lo vinse ma ciò non sminuisce il suo grande contributo: quello di aver inventato uno strumento medico di base, ma di fondamentale importanza. Uno strumento che ci permette di coprire naso e bocca, tentando di “filtrare” l’aria e difenderci dalle infezioni. E che si è rivelato essenziale in questi tre anni di pandemia.
Quanto lontano si spingono le goccioline prodotte da un colpo di tosse?
Un colpo di tosse media è in grado di riempire d’aria una bottiglia da due litri e le goccioline “sparate”, che possono essere anche 3.000, possono muoversi fino a 75 km all’ora. Lo starnuto, invece, genera anche 40.000 goccioline, alcune delle quali raggiungono la velocità di 320 km all’ora.
Nel 2014, filmando gli starnuti al rallentatore e ottenendo fino a 8.000 fotogrammi al secondo, un gruppo di ricercatori di fluidodinamica del MIT, guidato da Lydia Bourouiba (esperta nell’uso di modelli matematici per studiare la dinamica dello starnuto), ha visto che la nuvola turbolenta di goccioline prende forma solo pochi istanti dopo l’emissione. All’inizio il fluido esce dalla bocca in sottilissimi strati. L’impatto con l’aria li trasforma in anelli e poi in esili filamenti, che si frantumano formando le goccioline.
La distanza percorsa dalle goccioline dipende dalle loro dimensioni (quelle più grandi e quindi più pesanti cadono rapidamente al suolo sotto l’influenza della gravità, quelle più piccole e più leggere, quelle cioè inferiori a 5 micron di diametro, possono rimanere sospese nell’aria anche per 10 minuti). In ogni caso, non cadono a terra entro 1-2 metri, ma possono viaggiare fino a 8 metri se emesse da uno starnuto, e fino a 6 metri con la tosse.
Lo starnuto è un meccanismo fisiologico incontrollabile che permette al nostro organismo di liberarsi il più rapidamente possibile da intrusi come pulviscolo, polline, virus, batteri. Si tratta di un meccanismo di difesa che scatta ogni volta che è necessario espellere particelle estranee e agenti patogeni. Misurare con precisione la “forza” di uno starnuto è stato l’obiettivo dell’esperimento condotto da Lydia Bourouiba. Esperimento che getta luce sulla diffusione delle epidemie che si trasmettono per mezzo delle goccioline di saliva diffuse nell’aria.