Negli ultimi anni della sua vita, Albert Einstein lavorò febbrilmente alla ricerca di una teoria del campo unificato, un sistema concettuale in cui tutte le forze della natura si rivelassero sfaccettature differenti di una sola, immensa forza primordiale. La gravitazione che fa orbitare i pianeti attorno al Sole, l’attrazione magnetica che fa girare l’ago della bussola e la terribile potenza nucleare che aveva generato un lampo accecante su Nagasaki, pensava Einstein, erano semplici variazioni del campo unificato che aveva riempito tutto lo spazio nei primi istanti della creazione.
La meccanica quantistica e la relatività, in confronto alla teoria del campo unificato, erano aritmetica da prima elementare. Einstein aveva un giovane assistente, un brillante fisico tedesco, Ernst Straus, ma costui poteva aiutarlo ben poco nello sviluppo della teoria del campo unificato. Un tempo, quel genere di assistenza avrebbe potuto riceverla dal suo unico amico all’Institute of Advanced Studies di Princeton, ma quell’amico impazziva ogni giorno di più. Si trattava del matematico tedesco Kurt Gödel, i cui teoremi di incompletezza negli anni ’30 avevano travolto la matematica con la potenza di uno schiacciasassi.
Gödel aveva individuato alcune teoremi di cui era impossibile dimostrare la correttezza o l’erroneità, demolendo il “programma di Hilbert” che intendeva stabilire un sistema completo di assiomi da cui sviluppare rigorosamente tutta la matematica. Era un’idea “assurda”, degna dello sfuggente principio di indeterminazione di Heisenberg e probabilmente Gödel aveva la sensazione che non avrebbe mai dovuto svilupparla. Quando i nazisti salirono al potere, Gödel sembrò a malapena accorgersene, ma quando fu chiamato al servizio militare e cominciò ad avvertire il presentimento che qualcuno lo volesse morto, decise di approdare a Princeton, dove trascorse il resto della sua vita.
Lì, Einstein divenne il suo amico più intimo, ma dopo alcuni anni, il comportamento di Kurt Gödel iniziò a diventare sempre più strano. Si barricava nel suo studio, evitando ogni contatto umano, e accettava solo i messaggi che gli venivano passati sotto la porta. Ipocondriaco e paranoico, mangiava poco e controvoglia, sospettando l’avvelenamento, fino a smettere del tutto di nutrirsi. Un giorno, mentre pranzavano insieme come al solito, Gödel, Einstein e Straus stavano discutendo le notizie del giorno.
Era l’anno 1951 e l’evento più importante era il rientro del generale MacArthur dalla sua campagna in Corea. “Avete per caso letto del ritorno di MacArthur dalla Guerra di Corea?”, chiese Straus. “Certo”, rispose Gödel, “era sulla prima pagina del “New York Times”. Ma quello non è MacArthur”.”Prego?”, replicò Straus. “L’uomo nella fotografia, quello che percorre Madison Avenue, non è MacArthur, ma un impostore”.”E da cosa l’hai capito, Kurt?”, domandò sottovoce Einstein. “Dal viso”. “A me sembrava proprio lui”. “Ha il viso delle dimensioni sbagliate”.”E come fai a dirlo?”.
“Sapete”, rispose Gödel accalorandosi, “come si scopre un travestimento? Il viso ha delle proporzioni che non possono essere modificate. La lunghezza del naso, la distanza tra la punta e il mento. I rapporti tra queste lunghezze non possono cambiare, a prescindere da quello che uno si appiccica in faccia. Ho misurato quei rapporti sul MacArthur del “New York Times”. Poi ho scovato una sua vecchia fotografia. Le proporzioni sono diverse. Non è lo stesso uomo”. “Sorprendente!”, esclamò Einstein, mentre Straus sorseggiava l’acqua con evidente imbarazzo. “Non la sapevo questa cosa del viso. Immagino di essere cambiato parecchio da quando ero giovane”. “Quello non era MacArthur”, ribadì Gödel e poi tacque.
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