Anatomia del telescopio: dagli strumenti ottici ai Gamma
La “nascita” del telescopio
Non è possibile stabilire con certezza la vera origine del telescopio, da alcuni ritrovamenti archeologici infatti, sembra che i babilonesi ne avessero già messo a punto alcuni rudimentali esemplari ottici; le tracce di questo strumento, poi, scompaiono insieme alle vecchie civiltà mesopotamiche e nell’emisfero occidentale per riaffiorare soltanto dopo il Rinascimento. Durante i primi anni del 1600, infatti, in Europa iniziarono a fare la loro comparsa i primi telescopi ottici il più famoso dei quali, ma non il primo in assoluto, fu quello messo a punto da Galileo Galilei.
I telescopi ottici possono essere di due tipi: rifrattori oppure riflettori; quello Galileiano è un classico esempio di rifrattore, perché la messa a fuoco dell’immagine è ottenuta appunto mediante il fenomeno di rifrazione delle lenti.
I riflettori, invece, sfruttano un sistema di specchi che riflettono una porzione di cielo verso una lente oculare, e quindi la messa a fuoco avviene direttamente sull’immagine riflessa; questo tipo di telescopio è chiamato anche Newtoniano, in quanto il primo esemplare fu messo a punto da sir Isaac Newton.
Lo spettro visibile e i limiti dei telescopi ottici
Col progredire della tecnologia nel corso del tempo, anche i telescopi sono ulteriormente cambiati e non soltanto in termini di ottica. Le lenti infatti, anche se offrono una maggiore potenza di ingrandimento, non sono altro che delle “protesi” concepite per amplificare la capacità percettiva di base dell’occhio umano.
Un telescopio astronomico di tipo Galileiano o Newtoniano quindi, finché è situato all’interno dell’atmosfera, è in grado di percepire uno spettro di frequenze la cui lunghezza d’onda va da 1 micrometro a 50 nanometri; e di conseguenza permette di osservare solo una minima parte degli oggetti presenti nello spazio.
Eliminando i filtri naturali costituiti dall’atmosfera e dal campo magnetico terrestre, i quali bloccano le lunghezze d’onda ad alta e bassa frequenza che vanno oltre la gamma dello spettro visibile a occhio nudo, è possibile incrementare ulteriormente le prestazioni di un telescopio ottico.
L’esempio più famoso è lo Hubble, un riflettore di grandi dimensioni frutto di un progetto congiunto delle agenzie spaziali NASA ed ESA, il quale è stato collocato in orbita appunto per superare la barriera naturale dell’atmosfera. Questo ha permesso di incrementare la percettibilità ottica sulla gamma degli infrarossi, estendendo il limite della lunghezza d’onda da 1 micrometro a 5 centimetri.
I radiotelescopi
Come si può facilmente intuire a questo punto, quindi, anche spostando il punto di osservazione direttamente nello spazio il limite naturale dei telescopi ottici rientra comunque in un intervallo di lunghezza d’onda complessivo che va dai 50 nanometri ai 5 centimetri. Per percepire lunghezze d’onda oltre queste soglie, e quindi spostarsi sulle frequenze più basse o più alte della luce, occorre utilizzare telescopi che al posto dei sistemi ottici utilizzano una metodologia radicalmente diversa.
I radiotelescopi, per esempio, sono degli strumenti di osservazione che sfruttano lo stesso principio del telescopio riflettore, solo che al posto dello specchio e dell’oculare utilizzano una parabola di alluminio che riflette le onde radio emesse e captate da un dispositivo ricetrasmittente; quando l’antenna parabolica è singola, il dispositivo ricetrasmittente è in grado di coprire un intervallo di lunghezze d’onda che va da 3,5 millimetri fino a 90 centimetri, ma applicando il metodo interferometrico è possibile utilizzare diverse antenne e arrivare a coprire un intervallo di lunghezze d’onda che va da 3,5 millimetri fino a oltre 20 metri.
Una delle più grandi installazioni al mondo che utilizzano il metodo interferometrico è il Very Large Array situato nel deserto del New Mexico, che conta ben 27 antenne paraboliche da 25 metri di diametro ognuna; le antenne sono disposte secondo uno schema a Y e sono in grado di operare all’unisono come una singola antenna ricevente dal diametro di 40 chilometri.
L’astronomia a raggi X e Gamma
Per coprire le lunghezze d’onda ad altissima frequenza, che vanno da 50 a 0,1 nanometri, occorre fare uso dei telescopi a raggi X e dei Gamma; la loro progettazione, però, è estremamente complicata a causa dell’alta penetrabilità di questi raggi nei corpi solidi, soprattutto al vetro e al metallo.
Per realizzare un modello a raggi X o Y, quindi, non è possibile usare un singolo specchio o una parabola riflettente di alluminio, come quelli usati dai telescopi ottici tradizionali e dai radiotelescopi, ma occorre un elevato numero di specchi parabolici e iperbolici, i quali devono essere anche disposti secondo uno schema tale da generare angoli di incidenza molto piccoli, in modo da evitare che i raggi invece di essere riflessi attraversino semplicemente la superficie dello specchio.
Uno dei progetti più recenti è il CTAO, che coinvolge 1.500 persone in 31 Paesi compresa l’Italia. Grazie ai telescopi a raggi X e Y è stato possibile raggiungere nuove frontiere nell’osservazione astronomica, e indagare a fondo e in maniera ben definita su fenomeni come le Pulsar, le stelle collassate e tutti quei fenomeni celesti caratterizzati da emissioni di particelle ad altissima energia.