Home » Giacomo Leopardi: la storia della sua malattia

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Quando la passione per la medicina incontra quella per la letteratura possono accadere cose davvero particolari. Erik Sganzerla, medico monzese direttore del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale San Gerardo e professore associato all’Università degli Studi di Milano – Bicocca, deve saperlo molto bene. Il prof. Sganzerla, infatti, come ha raccontato al Corriere della Sera, è un grande appassionato di Giacomo Leopardi, senz’altro uno dei più grandi poeti del 1800 italiano.

Spinto dalla curiosità scientifica e dalla voglia di approfondire il lato umano del poeta, il professore è andato alla ricerca di tutti gli indizi clinici lasciati da Leopardi stesso nelle 1969 lettere che compongono la sua opera.  I risultati di questo lavoro sono affidati al libro “Malattia e morte di Giacomo Leopardi”, edito da BookTime.

Leopardi era davvero depresso?

Chi ha avuto modo di approcciare alla figura di Giacomo Leopardi avrà avuto modo di leggere qualcosa riguardo il suo ipotetico stato depressivo. Nonostante un amore non corrisposto da Fanny Targioni Tozzetti, un fisico gracile e cagionevole e l’obbligo a restare chiuso nella biblioteca di famiglia per volere paterno il reale problema di Leopardi non fu nulla di tutto ciò.

Nelle sue lettere Leopardi più volte descrive il suo stato fisico, la sua malattia, i sintomi che lo affliggevano.

“[…] disturbi urinari, deformità spinale, disturbi visivi, astenia, gracilità, bassa statura, disturbi intestinali e complicanze polmonari e cardipolmonari. Piuttosto che pensare a tante diverse patologie ho ricondotto questo quadro ad un comun meccanismo degeneratore”.
(E. Sganzerla al “Corriere della Sera”)

Da questo lavoro analitico del professore ne emerge che il più probabile evento che minò la salute di Leopardi fu una rara patologia genetica: la Spondilite Anchilopoieica o morbo di Bechterew, più nota con il nome di Spondilite Anchilosante.

A stroncare il poeta marchigiano, secondo il professore, fu proprio uno scompenso cardio polmonare dovuto alla sua patologia.

La Spondilite Anchilosante: ecco di cosa si tratta

La Spondilite Anchilosante è una patologia reumatica infiammatoria cronica e progressiva che colpisce generalmente soggetti giovani, con un picco di età tra i 15 e i 30 anni. La prevalenza della patologia in Europa si attesta intorno allo 0,25-1%.

La causa della patologia non è nota, ma il suo sviluppo è legato a fattori sia genetici che ambientali. L’associazione più stretta è stata trovata con uno specifico pattern di quei geni deputati alla regolazione del sistema immunitario e che vanno sotto il nome di antigeni di istocompatibilità umana (HLA). Nel dettaglio l’HLA B27 è ritrovato in oltre il 90% dei malati di Spondilite Anchilosante e solo nel 7% della popolazione generale.

La patologia colpisce prevalentemente lo scheletro assiale manifestandosi come dolori al rachide che colpiscono dapprima i distretti sacrali per poi coinvolgere la regione dorsale e cervicale.

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Nel corso degli anni, se la patologia non viene adeguatamente controllata, l’infiammazione si rende così severa da condurre ad anchilosi ossea della colonna vertebrale. Di fatto viene a formarsi del tessuto osseo che salda tra loro le vertebre. Con la progressione della patologia anche le articolazioni periferiche vengono interessate dai processi infiammatori.

Soprattutto nei giovani proprio l’interessamento di articolazioni periferiche potrebbe essere il primo segnale di patologia.

Non sono infrequenti manifestazioni extra articolari come fenomeni di uveite, coinvolgimenti cardiovascolari (5% dei casi), polmonari (2%), intestinali (60%).

Anoressia, malessere, perdita di peso, febbricola sono più frequenti nelle forme giovanili.

Ad oggi la malattia, se opportunamente trattata e riconosciuta in fase precoce, ha una prognosi buona. La progressione della malattia è di per sé lenta e con le attuali terapie può essere tenuta sotto controllo.

Come si può trattare la Spondilite Anchilosante

La terapia, in questo tipo di patologie, non è mai una terapia definitiva quanto conservativa. Ciò significa che non siamo in grado di eradicare il problema ma soltanto di controllarlo.

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La terapia sintomatologica si basa sull’assunzione di Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei (FANS) come l’indometacina o il diclofenac (tra i farmaci rivelatisi più efficaci), in grado di ridurre nell’immediato il dolore. Qualora questi si rivelino insufficienti farmaci di seconda scelta sono gli analgesici come il paracetamolo o i derivati oppioidi.

Per bloccare la progressione della patologia, invece, le principali armi a disposizione sono i nuovi farmaci biologici come gli anti TNF alfa. Questi, tuttavia, sono di difficile utilizzo sia per gli importanti possibili effetti collaterali che per l’alto costo.

Nei casi più gravi si può tenere in considerazione l’approccio chirurgico a livello del rachide e dell’articolazione dell’anca.

 

Fonti ed approfondimenti: