Non solo microplastiche: plastica liquida, un killer sconosciuto (o ignorato?)
“I’m a Barbie Girl in a plastic world”, cantavano gli Aqua nel 1997 nel celebre brano “Barbie girl”. Oggi, nemmeno 25 anni dopo, possiamo tristemente constatare che siamo un po’ tutti delle Barbie e dei Ken. Le microplastiche sono gli invasori invisibili del nostro secolo: hanno raggiunto tutti gli habitat del pianeta, sono entrate nella catena alimentare e sono arrivate sulle nostre tavole, nelle feci e nella placenta umana. L’inquinamento da microplastica è spaventoso e ancora non sappiamo di preciso quali siano gli effetti sugli ecosistemi e sugli esseri viventi.
Cosa sono e da dove vengono le microplastiche?
Con il termine “microplastiche” si indicano particelle solide con dimensioni minori di 5 mm, composte da una miscela di polimeri e additivi funzionali. Esse si generano in modo accidentale attraverso l’usura di oggetti in plastica e a causa di uno smaltimento o di un riciclaggio scorretto: quando pezzi polimerici rimangono nell’ambiente, si degradano nel corso di secoli trasformandosi via via in frammenti sempre più piccoli che si accumulano nel tempo.
Accanto a queste cosiddette microplastiche “secondarie”, si collocano quelle “primarie”, ossia fabbricate e aggiunte appositamente a prodotti di uso comune. Questi, quotidianamente, scendono giù lungo i nostri scarichi inquinando drammaticamente l’ambiente acquatico: make-up, articoli per la cura del corpo come dentifrici, esfolianti, balsami; detersivi per la casa, per il bucato e le stoviglie, nonché fertilizzanti, prodotti destinati alle piante e vernici.
Ogni anno, l’ambiente è invaso da 176 000 tonnellate di microplastiche “accidentali” e da circa 42 000 tonnellate “intenzionali”: di quest’ultime, 16 000 tonnellate provengono dai riempimenti dei campi in erba sintetica, che ne sono la fonte più importante.
Le mosse dell’Italia e dell’UE contro le microplastiche: falso scacco matto alle materie plastiche addizionate
Nella Legge di Bilancio del 2018, l’Italia aveva inserito il divieto alla commercializzazione di “prodotti cosmetici da risciacquo ad azione detergente o esfoliante contenenti microplastiche”, a partire dal 1° gennaio 2020. Questa decisione, pur portando l’Italia ad essere tra i primi paesi Europei a limitarne l’uso, non contemplava gran parte dei prodotti che le contengono.
Inoltre, seppur nel ventunesimo secolo, non abbiamo ancora raggiunto un buon livello di trasparenza: in base ai regolamenti vigenti sui detergenti, le aziende non devono riportare in etichetta la lista completa di tutti gli ingredienti, ma renderla disponibile online sulle proprie pagine web. Per quanto riguarda i cosmetici, invece, le normative obbligano sia i produttori, sia le aziende che immettono i prodotti sul mercato, a elencare tutti gli ingredienti secondo la nomenclatura INCI (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients) e in un ordine quantitativo decrescente. Rimane però responsabilità dell’azienda stessa riportare l’elenco anche sulle piattaforme di e-commerce: questo dato è allarmante, in quanto la vendita online di make-up è in crescita dal 2017 (quando il valore degli acquisti online ha superato i 300 milioni di euro) e, nell’ultimo anno, ha avuto uno boom a causa della pandemia. Per alcuni prodotti è impossibile rintracciare la lista dettagliata delle sostanze presenti.
Proprio quest anno, però, la situazione sembra sul punto di evolvere a livello europeo. Dopo circa un anno di lavoro, nel gennaio 2019, l’ECHA (European Chemical Agency) ha proposto un’ampia restrizione delle microplastiche primarie nei prodotti immessi sul mercato UE/SEE, che impedirebbe il rilascio di 500 000 tonnellate di microplastiche in 20 anni. Questa inversione di rotta costituirebbe un miglioramento drastico, considerando che l’impiego delle microplastiche primarie, nei settori della produzione in cui è noto il loro utilizzo, aumenta annualmente di oltre 40 mila tonnellate. La restrizione prevede l’obbligo di una chiara etichettatura nel caso un uso consapevole del prodotto permetta di limitare l’inquinamento o, altrimenti, una sua eliminazione dal mercato.
Nel 2021 la Commissione Europea elaborerà una proposta finale alla luce di quanto evidenziato dalla ECHA e del parere dei suoi comitati RAC (comitato per la valutazione dei rischi) e SEAC (Comitato per l’analisi socioeconomica); successivamente questa passerà al vaglio del Parlamento e del Consiglio Europeo. Il 2021 sembra quindi essere l’anno dell’ultimatum alla microplastica “intenzionale”, ma allora perché non si parla della plastica liquida, semisolida o solubile?
L’ignoranza a braccetto con il capitalismo
La plastica in forma liquida o semisolida deriva dalla combinazione di due o più tipi di polimeri, noti come copolimeri, costituti da più monomeri sintetici (ad esempio stirene e acrilati) oppure si tratta di una combinazione di sostanze naturali modificate e sintetiche. Ad oggi la comunità scientifica ne ha già riscontrato la presenza nell’ambiente, ma non sa dire con precisione quale siano gli effetti del suo rilascio in natura.
Ciò che, invece, è noto non lascia spazio di certo a grande ottimismo: si parla, ancora una volta, di sostanze chimiche di sintesi dotate di scarsa biodegradabilità, analiticamente difficili da rilevare e, una volta disperse in natura, estremamente faticose da rimuovere. Data l’affinità con le microplastiche, si ipotizzano effetti simili a quelli delle particelle solide: contaminazione degli ecosistemi, ingresso nella catena alimentare, una possibile capacità di legare sostanze chimiche pericolose e rilasciare sostanze tossiche.
È spaventosa l’assenza totale di riferimenti normativi. A differenza di molte altre sostanze chimiche, la plastica liquida, semisolida o solubile non è registrata dal REACH (regulation, evaluation, authorization, and restriction of chemicals, ECHA) e le informazioni circa i volumi di produzione sono spesso scarsi o non disponibili pubblicamente. Una stima, basata sulla produzione totale annua di materia plastica in Europa e le quantità d’uso della stessa ad altri scopi, indica una produzione di milioni di tonnellate.
L’indagine di Greenpeace: cosmetici e detergenti sotto accusa
Nel 2020 Greenpeace ha indagato la presenzadi plastiche nei detergenti e nel make-up, in cui sono regolarmente aggiunte per garantire determinate caratteristiche o funzionalità dei prodotti. Aumento del potere abrasivo attraverso particolato solido, prolungamento del rilascio del profumo nel tempo attraverso formazione di una pellicola polimerica (microcapsula) attorno a gocce di fragranza, effetto opacizzante, antischiuma o regolazione della viscosità sono solo alcuni esempi di utilizzo all’interno di detergenti.
Greenpeace sottolinea come addizionare polimeri sintetici sia una scelta e non una necessità, perché gli stessi risultati si potrebbero ottenere attraverso alternative naturali: argille, carburo di silicio o silice per garantire capacità abrasiva; pectina, cellulosa, argilla o silice per la microincapsulazione delle fragranze; uso di cera d’api o carnauba, ottenuta dalle foglie di una specifica palma, anziché di polietilene e polipropilene per la lucidatura del parquet. Entrambe le indagini sono state condotte in due fasi: inizialmente Greenpeace ha cercato la lista degli ingredienti dei detergenti o degli articoli make-up sui siti delle aziende selezionate e ha inviato loro un questionario circa l’uso di materia plastica; successivamente ha esaminato in laboratorio campioni dei prodotti scelti, al fine di classificare le microplastiche presenti.
Poiché ancora oggi non è stata definita una procedura standard per l’analisi di microplastiche nei prodotti, è stato scelto un iter comune in letteratura scientifica. Per quanto riguarda i detergenti, una certa aliquota di 31 prodotti (19 detergenti liquidi, 3 in polvere,3 in capsule, 3 ammorbidenti e 3 prodotti per superfici), acquistati in supermercati italiani, è stata mescolata con acqua pura e poi filtrata su una rete metallica con maglia di 50 micrometri: le particelle isolate sono quindi state identificate tramite spettroscopia infrarossa (FT-IR) in modo da ricostruirne la composizione chimica; la realizzazione di “bianchi” ha permesso di escludere contaminazioni accidentali durante l’analisi stessa. Sono state così identificate particelle solide con dimensioni tra i 50 micrometri e i 5 mm.
Diversamente, idonee quantità degli articoli di make-up indagati sono state trasferite in provette di vetro e sciolte in 5-10 ml di soluzione a base di acetone, acqua ossigenata ed n-esano. Successivamente, sono state posizionate su filtri e lasciate a riposo per 48 ore; è stata quindi aggiunta una soluzione colorante per procedere con l’analisi con microscopio a fluorescenza: le particelle identificate come polimeri sintetici sono state infine caratterizzate tramite spettroscopia μRaman. I risultati sono sconcertanti in entrambi i casi.
La lettura degli ingredienti di 1819 detergenti presenti sul mercato italiano, sulle pagine ufficiali di 23 aziende, e il confronto con la lista ECHA ha evidenziato come il 23% di questi (ovvero 427) contengono polimerici plastici. I più presenti risultano il copolimero a base di stirene e acrilati (in 293 prodotti), seguito dal sodio poliacrilato (in 45 prodotti). In laboratorio, solo in due dei 31 prodotti è stato trovato polistirene: escludendo eventuali particelle minori di 50 micrometri, è chiaro che la maggior parte dei polimeri è usata in forma liquida o semisolida, come per altro confermato dai pochi questionari pervenuti (solo 9 aziende su 23 hanno risposto all’indagine confermando la presenza di polimeri di altra natura, oltre che solidi).
L’industria del make-up non è da meno. L’indagine ha riguardato fondotinta, ciprie, illuminanti, mascara, rossetti e lucidalabbra di 11 aziende di make-up italiane. Il report di Greenpeace denuncia: “Dei 672 prodotti presi in esame nell’indagine online, il 79% aveva almeno un ingrediente in plastica e circa il 38% di questi presentava ingredienti in plastica solida (microplastiche) mentre nei restanti le materie plastiche erano in forma liquida, semisolida o solubile. […] La categoria merceologica dove la presenza di ingredienti in plastica risultata più frequente sono i mascara (90%), seguiti da rossetti e lucidalabbra (85%), fondotinta (74%), illuminanti (69%) e ciprie (43%).”
Il risultato è preoccupante e il quadro peggiora considerando che non tutte le materie plastiche sono sensibili alla colorazione e che la strumentazione usata non ha consentito l’identificazione delle particelle più piccole di 10 μm. Le 5 materie plastiche più presenti risultano essere: Polyvinylpyrrolidone (PVP – in139 prodotti), Polyethylene (in 132 prodotti), Polybutene (in 115 prodotti), Trimethylsiloxysilicate (in 78 prodotti) e Nylon-12 (in 58 prodotti); tra queste soltanto il Polyethylene ed il Nylon 12 sono in forma solida. 3 tra le 10 sostanze plastiche più presenti (Polybutene, Acrylates copolymer, Vinyl dimethicone/methicone silsesquioxane crosspolymer ) sono riportate nel regolamento europeo REACH come pericolose, poichè infiammabili, irritanti per la pelle o le mucose e altamente nocive per gli ambienti acquatici sul lungo periodo. È allarmante come materie plastiche tossiche, solide e non, siano maggiormente presenti proprio nei prodotti per occhi e labbra, le zone del viso più sensibili.
L’unione fa la forza
Purtroppo, senza provvedimenti dall’alto non ci si può aspettare un reale cambiamento da parte delle aziende: la morale e l’etica sono ben lontane dalla logica del capitalismo. Ognuno di noi, però, può dare il suo contributo: è la presenza di ogni goccia d’acqua che rende possibile l’esistenza del mare. Possiamo decidere di acquistare solo prodotti con una etichettatura chiara, googlare il nome delle aziende da cui compriamo e informarci: dobbiamo iniziare a scegliere di rinunciare ad un caffè per sostenere il vero impegno al miglioramento comprando un prodotto magari più caro, ma etico. Non lasciamo che avvenga la sostituzione delle microplastiche solide con un maggior quantitativo di materia plastica liquida, semisolida o solubile. In quanto consumatori ricordiamo sempre che l’acquisto è politico.
Articolo a cura di Eleonora Rusconi