Dopo oltre tre mesi dall’esplosione del nuovo coronavirus in Italia, il nostro Paese sembra ancora spaccato in due in termini di contagio. Da un lato la situazione drammatica della Lombardia, con più di 15000 morti, dall’altro i panorami sanitari più distesi di regioni quali Basilicata, Calabria e Sicilia.
Numerose spiegazioni saltano fuori ogni giorno sui giornali, nei talk-show in televisione e persino su Youtube. C’è chi punta il dito contro il clima, chi asserisce che al sud si fanno pochi tamponi e chi ancora colpevolizza l’esposizione ai traffici commericiali del mondo glabalizzato. Ma esiste una risposta scientifica dal punto di vista sanitario?
L’alto tasso di mortalità è stato preso in esame in un articolo uscito in questi giorni su Frontiers in Immunology. Il lavoro è stato condotto da Luciano Mutti, Francesca Pentimalli, Giovanni Baglio, Patrizia Maiorano,
Rita Emilena Saladino, Pierpaolo Correale and Antonio Giordano. Quest’ultimo è fondatore e direttore dell’Istituto Sbarro per la ricerca sul cancro e la medicina molecolare di Filadelfia, nonché professore di Anatomia patologica all’università degli studi di Siena.
Nell’articolo si legge che tutti i dati raccolti dalle varie casistiche convergono sul ruolo che ha la risposta infiammatoria immuno-mediata, conseguente al rilascio di autoantigeni e la cross-presentazione delle cellule T nel tessuto alveolare (polmoni) danneggiato. In soldoni, significa che in alcuni soggetti l’infiammazione è prolungata e, addirittura, si autoalimenta.
Poiché si è notato che la carica virale (ovvero, quanto virus un soggetto ha acquisito, quantitativamente, e quanto in questo momento se ne sta replicando nel mio corpo) non è correlata direttamente con la gravità della risposta infiammatoria, i ricercatori hanno compreso che la differente risposta interindividuale passa dalla predisposizione genetica che causa il più delle volte infiammazioni letali.
Il cuore dell’articolo sta nell’ipotesi secondo cui un ruolo chiave nel decorso della malattia sia giocato da loci genetici fondamentali (HLA) nella risposta immunitaria adattativa, ovvero quella che sottende a linfociti e anticorpi. I linfociti, per riconoscere gli antigeni, hanno bisogno di adattatori molecolari, codificati proprio grazie alle HLA.
Ognuno di noi ha degli aplotipi diversi di HLA. Tuttavia ci sono frequenze maggiori di un tipo o di un altro nella popolazione. Molte malattie, soprattutto autoimmuni, ma anche alcuni tipi di malattie neurologiche e dermatologiche hanno come predisposizione un tipo di HLA. Non è raro che una determinata popolazione in un determinato posto abbia a disposizione nel proprio patrimonio genetico un particolare tipo di HLA.
Nonostante le prime evidenze dimostrino una correlazione fra HLA e incidenza del virus in alcune regioni italiane, ciò dovrà essere confermato da studi che comprendano un campione molto più vasto di popolazione.
Se i successivi studi dovessero confermare l’ipotesi, si potrebbe individuare il gruppo di alleli HLA che sono più “permissivi” nei confronti del coronavirus. Questo spiegherebbe in via definitiva la profonda differenza di incidenza nel nostro Paese. Tale correlazione potrebbe persino essere utilizzato come “arma” contro Covid-19, in un’ottica di prevenzione e di diagnostica. Infatti, sarebbe possibile individuare ed isolare i pazienti a rischio, studiando terapie ad hoc.
Intervistato da Adnkronos Salute, il ricercatore italiano naturalizzato statunitense ha asserito quanto segue:
[bquote by=”Antonio Giordano” other=”Fondatore e direttore dell’Istituto Sbarro per la ricerca sul cancro e la medicina molecolare di Filadelfia e professore di Anatomia patologica all’università degli studi di Siena”]Mentre alcuni hanno proposto che condizioni climatiche più miti potrebbero aiutare a prevenire la diffusione virale noi ci chiediamo se una specifica costituzione genetica possa contribuire a proteggere i cittadini del Sud. Ulteriori studi caso-controllo su larga scala potrebbero far luce su questo possibile aspetto, ma le solide basi per pensarlo già esistono. Stiamo aumentando la casistica per arrivare al dato finale. Esistono complesse interazioni tra genetica e ambiente. Dobbiamo considerare anche una serie di fattori importanti che stiamo esaminando, non ultimo il possibile ruolo dell’inquinamento da polveri sottili[/bquote]
In collaborazione con Francesca Tarantino (Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma).