Sentiamo spesso parlare del come e del quando la pandemia da coronavirus giungerà al termine, pronosticando eventuali scenari del ritorno ad una vita normale. Ora più che mai abbiamo riscoperto le tante storie sulla fine delle pandemie o epidemie del passato, rischiando di azzardare paragoni privi di un reale parallelismo. E’ molto rischioso confrontare due malattie sulla base del solo agente patogeno o del tasso di mortalità. Quello che bisogna tenere a mente sono gli aspetti ambientali, politici, psicologici, socio-economici caratteristici del periodo storico che ospita la pandemia. E’ quindi necessaria molta cautela nel paragonare il Covid-19 all’influenza spagnola o alle grandi pestilenze della storia, poiché è facile aumentare il livello di confusione generale piuttosto che facilitare la comprensione di un fenomeno complesso.
Quello della peste nera è un paragone frequente con il coronavirus. La peste è tra le malattie infettive più letali mai esistite e colpì l’uomo per ben tre volte. Nel 1377 venne messa a punto una misura di contenimento non farmacologica che oggi ci è particolarmente familiare: la quarantena. Tuttavia, il confronto con il Covid-19 è di poco conto. Nel caso della Morte Nera il parassita è un batterio e non un virus, ospitato nel corpo dei ratti. Quando questi morivano in seguito all’infezione, le pulci si spostavano sull’uomo nutrendosi nel suo sangue per poi rigurgitarlo in superficie con tanto di agente infettivo: lo Yersiania pestis. Il parassita non veniva inoculato direttamente. Quando l’individuo iniziava a grattarsi, creava involontariamente delle vie d’ingresso per il patogeno. Così avveniva la trasmissione della peste, e chi sviluppava la forma polmonare della malattia poteva infettare altri uomini.
I quaranta giorni erano sufficienti affinché i topi malati morissero e la malattia si manifestasse negli uomini contagiati. Tuttavia la peste non è mai scomparsa: ancora oggi nel mondo si manifestano dai 1000 ai 3000 casi all’anno, facilmente curabili con antibiotici. Ci sono diverse ipotesi che spiegano come la peste si attenuò. Innanzitutto, il miglioramento delle condizioni igieniche e l’allontanamento dei topi dalle case diminuì drasticamente la trasmissione del patogeno. L’ambiente si rivelò essere il fattore determinante: le microglaciazioni dell’Europa del Seicento favorirono l’evoluzione del Rattus norvegicus, più resistente alla malattia.
La quarantena non è sempre stata una misura di contenimento delle epidemie universalmente condivisa. Infatti, il suo impiego come unica di strategia ha condotto a diversi fallimenti nella storia delle malattie: è il caso del colera e della febbre gialla, che avrebbero richiesto misure contenitive differenti.
D’altra parte, l’influenza spagnola del 1918 è l’esempio dell’efficacia della quarantena e dei metodi di distanziamento sociale. L’influenza uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo. Diversi studi hanno constato come nelle aree rurali la mortalità sia stata più elevata rispetto alle aree urbane, dove le misure non farmacologiche come il confinamento potevano essere applicate più efficacemente. La fine della pandemia venne dichiarata nel 1920 di comune accordo nella comunità scientifica, quando la popolazione sviluppò un’immunità collettiva. A causare l’influenza spagnola è stata una mutazione del virus dell’influenza A. Una grande differenza con il coronavirus SARS-CoV-2 sta nell’età dei pazienti deceduti. Infatti, nel caso dell’influenza spagnola il tasso di mortalità più elevato si verificava in corrispondenza di giovani sani tra i 18 e i 29 anni. Com’è possibile?
Uno studio pubblicato sul Proceedings of the National Academy of Science suggerisce che, contrariamente alla popolazione più giovane, la maggior resistenza degli anziani alla malattia fosse dovuta ad una parziale immunità ottenuta da influenze passate.
Gli storici hanno individuato due momenti conclusivi di una pandemia: una fine sanitaria, quando il contagio e la mortalità sono debellati, e una fine sociale, quando sparisce la paura della malattia. Secondo la comunità scientifica, nel caso del Covid-19, il secondo scenario è più probabile. Dichiarare la fine delle pandemie non è mai stato e mai sarà un compito semplice. L’impostazione della risposta all’epidemia o pandemia è spesso dettata da esigenze politiche, economiche e sociali piuttosto che dalla sola azienda sanitaria. Quello che osserviamo oggi è una popolazione che stanca del confinamento e delle regole stia imparando a convivere con il coronavirus, lasciando da parte il panico iniziale.
L’unica malattia che ha raggiunto la conclusione medica è il vaiolo. Debellata con il vaccino, le campagne di vaccinazione di massa guidate dall’OMS tra gli anni ’60 e ’70 sono state fondamentali. Nel 1979 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il vaiolo eradicato. Si tratta purtroppo di un’eccezione nella storia dell’uomo, perciò è bene non farsi ingannare dalle narrazioni del passato riguardo la fine delle pandemie. Basti pensare che fino al 1880 non si era in grado di indentificare con esattezza le cause di una malattia infettiva, mentre oggi in pochi giorni riusciamo a sequenziare il genoma di un parassita. Ricostruire la filogenesi di una malattia era pressoché impossibile, così come stabilirne le variabili epidemiologiche e seguirne accuratamente la diffusione. Ogni pandemia è unica, così come unici sono l’agente infettivo ed il contesto in cui esso si sviluppa.