Sono i cristalli fotonici a rendere possibili le rapidissime variazioni di colore che caratterizzano il camaleonte. Sorprendente come uno tra gli animali più antichi ad oggi viventi sulla Terra sia pioniere della tecnologia alla base di un’idea futuristica, la “pelle cromogenica intelligente”.
La notorietà del camaleonte risale ai tempi di Aristotele, che ne aveva descritto le peculiari caratteristiche, quelle stesse unicità che lo hanno reso protagonista di molti miti e leggende: la lingua-proiettile, occhi capaci di muoversi in maniera indipendente, zampe con dita zigodattili per avere una presa salda sui rami, la camminata in slow-motion e, soprattutto, la capacità propria di alcune specie di cambiare colore drasticamente e in tempi molto rapidi.
Comunicazione tra individui, mimetizzazione e termoregolazione sono i tre motivi fondamentali per cui diverse specie animali hanno sviluppato la capacità di cambiare l’estetica della propria pelle. Diversi vertebrati variano la luminosità dei colori del derma grazie alla dispersione-aggregazione di organelli cellulari contenenti pigmenti: queste variazioni fisiologiche determinano in termini ottici, il cambiamento della riflettanza delle cellule. D’altro canto, solo poche specie esistenti sono in grado di cambiare attivamente e completamente il tono della propria pelle. In questo caso, la colorazione è di tipo strutturale, eventualmente in combinazione con la pigmentazione.
Quando l’occhio umano interagisce con la “luce” avviene la percezione del colore, ma come è possibile nella pratica? E come mai un determinato oggetto appare proprio di un certo tono? Innanzitutto, bisogna specificare come il termine generico “luce”, indichi in realtà la radiazione elettromagnetica con lunghezza d’onda compresa tra i 380 nm e i 700 nm circa. Questo intervallo di frequenze è detto “visibile” in quanto unico responsabile della vista umana. Secondo la moderna “Teoria del colore” la percezione del colore avviene su due livelli: fisiologico e neurale. La spiegazione, ad oggi abbracciata, affonda le radici in due teorie madre sviluppate tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900: la “Teoria Tricromatrica”, di Jung e Helmoltz, e la “Opponent Color Theory” di Hering, psicologo tedesco.
A livello fisico avviene l’interazione tra la radiazione e i fotorecettori presenti nei nostri occhi, i cosiddetti coni. Questi si distinguono in S (short), M (medium), L (long) sulla base della lunghezza d’onda a cui sono maggiormente sensibili: pertanto, in base alle frequenze d’onda componenti il fascio, lo stimolo complessivo corrisponderà ad una determinata combinazione lineare dei tre contributi. Questa generalizzazione permette, così, di ricondursi a tre toni di base: blu, verde e rosso.
Successivamente ha luogo la codifica a livello neurale secondo quanto supposto da Hering: lo stimolo fisico è filtrato sulla base di tre canali visivi comprendenti coppie di colore in opposizione, ossia blu vs giallo, rosso vs verde, bianco vs nero. La visione di una determinata tinta è resa possibile dalla percezione combinata di un massimo di due dei colori elencati, tali da appartenere necessariamente a due coppie distinte. Questo spiega la possibilità per l’occhio umano di vedere toni rosso-giallastri o verde-bluastri, ma mai un color rosso-verdastro o giallo-bluastro. Considerando individui dotati di un senso della vista senza disfunzioni, si riscontra che a stimoli uguali corrispondono uguali percezioni, al punto che lo sviluppo della branca nota come “colorimetria” ha portato alla definizione di un sistema di misurazione quantitativa del colore.
Detto questo, resta da spiegare quale sia l’origine della colorazione del mondo che ci circonda. Come base del ragionamento, osserviamo come ogni oggetto possegga caratteristiche proprietà ottiche. Questo significa che quando la luce lo colpisce, il fascio viene parzialmente riflesso, assorbito o trasmesso e che all’interno della materia stessa possono avvenire i più disparati fenomeni ottici. Ne segue che è solo la radiazione risultante, che torna all’occhio umano dopo aver colpito un oggetto, a causare la stimolazione dei coni e a determinare la percezione del suo colore.
Quando si parla di colorazione basata sulla “pigmentazione”, si intende che l’oggetto in questione contiene pigmenti. Questi sono molecole contenenti gruppi funzionali in grado di assorbire nel visibile, detti a loro volta cromofori. La cosiddetta “colorazione strutturale”, invece, è dovuta ad una natura nano-stratificata della materia. Layers con indice di rifrazione variabile si sovrappongono finemente in modo che questo abbia una variazione periodica nel corpo stesso. Ciò comporta un’interazione luce – materia basata sulla legge di Bragg e quindi, nel contempo, la nascita di fenomeni di interferenza durante l’attraversamento dell’oggetto stesso.
La colorazione del camaleonte è di tipo strutturale ed è dovuta alla presenza di cristalli fotonici nelle cellule dell’animale. In particolare, la ricerca che ha condotto alla comprensione del meccanismo fisico risale al 2015 e si è basata sull’osservazione del camaleonte pantera (Furcifer pardalis, del Madagascar), che mostra i più evidenti cambiamenti di colore. Ad un’iniziale osservazione, sono seguite diverse analisi istologiche, spettroscopiche, al TEM (microscopio elettronico a trasmissione) e modellizzazione numerica della band-gap fotonica delle cellule degli animali sulla base di tecniche di videografia fotometrica.
Sono stati studiati 9 esemplari adulti (5 maschi e 4 femmine) e 4 esemplari giovani. Ognuno di essi è risultato in grado di modulare la luminosità della pelle attraverso la dispersione-aggregazione di pigmenti presenti nelle cellule dell’epidermide, in risposta a stimoli esterni quali, ad esempio, lo stress. La spettroscopia Raman ha permesso di identificare due tipi di cromofori coinvolti. Solo i maschi adulti, però, sono in grado di cambiare completamente colore, reversibilmente e in pochi minuti. Quando un individuo entra in competizione con un altro maschio o corteggia una femmina ricettiva, il colore di sfondo della sua pelle cambia dal blu-verde al giallo o all’arancio, mentre il rosso diventa più luminoso.
Variazioni così evidenti sono state osservate anche durante lo studio e hanno portato i ricercatori alla conclusione che fossero implicati fenomeni di interferenza, poiché la modellizzazione di un tale cambiamento considerando solo la dispersione-aggregazione di organelli contenenti cromofori risultava davvero ardua. Successivi esami istologici e analisi al TEM condotti sugli esemplari hanno permesso di capire che la pelle del camaleonte pantera è formata da due layers sovrapposti di cellule iridofore, che contengono cristalli di guanina di differente dimensione, forma e organizzazione. Lo strato inferiore è altamente riflettente, soprattutto nel vicino infrarosso e costituisce una sorta di protezione dai raggi solari. Il cambiamento di colore strutturale è invece dovuto allo strato superiore. Questo layer superficiale è completamente sviluppato solo negli adulti maschi ed è caratterizzato da cristalli di guanina altamente impacchettati e organizzati in una cella triangolare.
Confrontando le immagini ottenute al TEM si è potuto riscontrare un funzionamento riconducibile a quello dei cristalli fotonici. Quando il camaleonte è tranquillo la pelle è blu o verde, mentre il confronto con un pari o con un pericolo la rende gialla o bianca: fisicamente, i cristalli di guanina si distanziano di circa il 30% in più rispetto alla condizione precedente e il picco di riflettanza selettiva si sposta da valori corti di lunghezza d’onda (blu) a valori elevati (rosso o infrarosso). In corrispondenza delle macchie rosse una larga parte di iridofori superiori è sostituita da pigmenti rossi, quindi si osserva solo un aumento della luminosità del tono in risposta all’eccitazione dell’animale.
Molti animali in natura hanno una colorazione strutturale dovuta alla presenza di cristalli fotonici, ma quando il colore non varia è assente la bi-stratificazione di cellule iridofore. Pensiamo ad altre specie di lucertole, imparentate con i camaleonti, oppure all’iridescenza delle ali delle farfalle, delle penne del pavone e delle scaglie di alcuni pesci.
I cristalli fotonici sono materiali caratterizzati da un indice di rifrazione con variazione periodica e in grado di inibire la propagazione della luce in certe direzioni per via di un “band-gap” fotonico, similare al “band-gap” di cui parla la teoria a bande che modellizza la conduttività elettronica. La struttura dei cristalli fotonici consiste in una stratificazione discreta di piani paralleli organizzati in 1D, 2D o 3D. Queste stratificazioni sono dette “piani di Bragg”, poiché il band-gap a cui la radiazione interagente sarà soggetta dipende dall’angolo di incidenza del fascio secondo la legge di Snell-Bragg.
In altre parole, consideriamo fotoni con una frequenza appartenente ad un intervallo ristretto e ben determinato: possiamo dire che il cristallo ne limita la propagazione in quelle direzioni in cui avviene interferenza distruttiva. Di conseguenza, la luce è diffratta verso la direzione di provenienza e risulta in un picco di riflessione con una frequenza uguale al valore del band-gap fotonico. Il massimo della riflettanza cambia in funzione dell’angolo di incidenza, della composizione del cristallo e della distanza tra i piani. La legge di Snell-Bragg è derivata da una rielaborazione delle leggi di Bragg e Snell dell’ottica classica ed indica sostanzialmente che per avere interferenza costruttiva, la differenza di cammino tra due raggi deve essere multiplo intero della lunghezza d’onda.
[latexpage]
\[
m\lambda = 2D\sqrt{n_{eff}^{2}-sin\theta ^{2}}
\]
Nella formula soprastante m è l’ordine del picco di interferenza, la lunghezza d’onda, D lo spazio tra i piani, neff l’indice di rifrazione efficace e θ l’angolo di incidenza rispetto alla normale. L’indice di rifrazione efficace è ottenuto relazionando l’indice di rifrazione dei piani di Bragg e quello relativo al mezzo frapposto ad essi attraverso la relazione di Lorenz-Lorenz (la legge che lega la polarizzabilità all’indice di rifrazione di un mezzo).
Gli scienziati hanno cercato per lungo tempo di ricreare una pelle fotonica “intelligente”, ma a dispetto della facilità con cui il fenomeno avviene in natura, hanno riscontrato una grande difficoltà nel fare in modo che il cambiamento di colore non comportasse anche una variazione di volume. La rivista ACS Nano ha pubblicato solo nel 2019 i risultati della ricerca condotta dai chimici della Emory University, che sono riusciti a creare una pelle flessibile e intelligente, che cambia colore in risposta al calore e alla luce del sole mantenendo dimensioni pressoché costanti.
Osservando video time-lapsed della pelle dei camaleonti, durante la variazione di colore, i ricercatori si sono accorti che i cristalli fotonici non ricoprono l’intera pelle, ma sono dispersi in una matrice scura. Quando i cristalli fotonici cambiano colore la matrice “accomoda” la variazione del distanziamento tra i loro piani: le sue cellule si adeguano dinamicamente in modo che le dimensioni della pelle del camaleonte non varino nel complesso.
Prendendo spunto dalla natura, gli scienziati hanno usato magneti per creare patterns di cristalli fotonici contenenti ossido di ferro all’interno di un primo hydrogel che è stato a sua volta inglobato in un secondo hydrogel incolore con funzione di matrice. Il team li ha fatti combaciare meccanicamente in modo che variazioni della distanza tra i cristalli fotonici venissero accomodate e compensate. Quando la SASS (strain-accomodating smart skin) è esposta per 10 minuti al Sole, il suo colore cambia da arancio a verde senza variaizoni di grandezza.
Naturalmente, la strada è ancora lunga, ma le possibili applicazioni sono vastissime: mimetismo, sensoristica, anticontraffazione e addirittura “vernici fotoniche termocromatiche” capaci di migliorare l’efficientamento energetico degli edifici, cambiando le proprietà ottiche in funzione della radiazione solare esterna.
Articolo a cura di Eleonora Rusconi