Nella storia del pensiero, si incontrano spesso incredibili visioni anticipatorie, come quella che vedremo di Dante Alighieri, giunte quasi sempre come dei fulmini a ciel sereno. Si può citare, a titolo di esempio, un’incredibile intuizione che ebbe Anassimandro, filosofo presocratico vissuto tra il VII ed il VI secolo a.C. in Grecia.
Secondo Anassimandro, dopo il tramonto, il percorso del Sole e degli astri proseguiva fino a chiudersi su se stesso. Pertanto, ciò significava che il cielo non era soltanto in alto, sopra le nostre teste, ma anche in basso, sotto i nostri piedi. Insomma, per la prima volta, la Terra, allora vista generalmente come piatta, perdeva le salde radici che aveva avuto nell’immaginario collettivo e veniva a trovarsi sospesa nel cosmo.
Nessuno aveva osato tanto prima, ma non è tutto! Ancora più stupefacente era la risposta alla domanda: “Allora, perché la Terra non cade?”. Per il filosofo, la Terra non “affondava” nello spazio “a causa dell’eguale distribuzione delle parti”, ovvero per motivi di simmetria, come diremmo oggi. Non avendo quindi un motivo valido per preferire il movimento verso una specifica direzione, la Terra rimaneva ferma a galleggiare nel vuoto.
In sintesi, nel pensiero di Anassimandro incontriamo una credenza tipica dell’umanità primitiva (la Terra piatta) con un’ipotesi incredibilmente moderna: quella della simmetria dello spazio intorno a noi. Secondo Karl Popper, questa è stata “una delle più coraggiose, rivoluzionarie, portentose idee nella storia del pensiero umano”.
Un’altra interessante visione anticipatoria, risalente al Medioevo, è quella che ebbe Dante nella Divina Commedia. Se però la visione di Anassimandro è stata frutto di un acuto e profondo spirito di osservazione, quella di Dante è stata invece una meravigliosa intuizione poetica sul confine ultimo del cosmo, oltre le “sfere stellate”.
Nella Divina Commedia si rimane colpiti a più riprese dallo spirito scientifico, in senso naturalistico, del grande poeta. Tuttavia, non è possibile comprendere a pieno l’intuizione dantesca, senza sapere come funzionava l’universo secondo Aristotele (e secondo il pensiero antico più in generale).
Innanzitutto, occorre specificare che, secondo Aristotele, l’universo non era fatto di spazio, bensì di luoghi. Oggi sappiamo che lo spazio cosmico è privo di una naturale struttura gerarchica: è omogeneo ed isotropo e le leggi fisiche sono sempre le stesse, a prescindere dal luogo in cui ci troviamo o dalla direzione che percorriamo.
Secondo Aristotele, al contrario, tutto accadeva in uno scenario costituito da luoghi qualitativamente distinti e gerarchicamente diversi. Il filosofo stagirita giunse a tale conclusione, essendo rimasto colpito dalla differenza radicale tra i movimenti della Terra, limitati, precari e faticosi, ed i movimenti del cielo, che invece apparivano sovrumanamente precisi e silenziosi. Quindi, l’assoluta regolarità dei moti celesti denunciava per Aristotele la loro natura divina.
L’universo di Aristotele aveva un centro assoluto, la Terra, ed era diviso in due mondi separati: il mondo sublunare, che si estendeva dalla Terra fino all’orbita della Luna, ed il mondo sopralunare, cioè tutto il resto del cosmo. Il primo era il mondo del cambiamento e dell’imperfezione, mentre il secondo aveva una natura incontaminata ed eterna.
Sotto l’orbita della Luna, ogni cosa era composta in varie proporzioni da quattro ingredienti: aria, acqua, terra e fuoco. Sopra l’orbita lunare, invece, i corpi erano caratterizzati da una sostanza incorruttibile, detta ‘quintessenza’. Secondo Aristotele, la caduta dei corpi verso il basso era il risultato della loro intrinseca tendenza a dirigersi verso il luogo per loro naturale: il centro della Terra. Così si comportavano l’acqua e la terra, diversamente dal fuoco e dall’aria, che invece si innalzavano verso il cielo.
I pianeti erano invece corpi purissimi, incastonati come diamanti luminosi su sfere di cristallo che ruotavano grazie a dei motori immobili. Al confine ultimo dell’universo vi era il cosiddetto “Primo Mobile”, l’estrema forza motrice che metteva in moto tutti i cieli. Oltre il Primo Mobile, come riportava lo stesso Aristotele nel De Caelo, ‘non esistevano né luogo, né vuoto, né tempo’.
Siamo nel XXVII canto del Paradiso della Divina Commedia. Anche Dante, nella parte estrema del cosmo, nel cerchio più lontano rispetto al centro della Terra, riconosce la presenza del Primo Mobile, la sfera più alta del “ciel che tutto gira”. Mentre, però, per Aristotele oltre quello non vi era più niente, Dante, seguendo la tradizione medioevale, vi colloca l’Empireo, la casa di Dio, il “ciel ch’è pura luce”.
Fino a qui, lo scienziato moderno rimane sicuramente affascinato dalla poesia, ma non rimane stupito dalla descrizione dantesca. Lo fa però subito dopo. Dante e Beatrice salgono al Primo Mobile ed accedono all’Empireo, seguendo una direzione che a Dante sembra casuale, in quanto tutto appare uniforme (canto XXVII, versi 100-102):
«Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniformi son, ch’i’ non so dire
qual Bëatrice per loco mi scelse».
A questo punto (canto XXVIII), accade qualcosa di completamente inaspettato. Dante e Beatrice si trovano di fronte ad un altro spazio che non è ancora più vasto, come chiunque si sarebbe immaginato, ma converge verso un centro dove c’è un singolo accecante punto luminoso. Scrive Dante (canto XXVIII, versi 16-18):
«un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume».
Beatrice, vedendo Dante particolarmente disorientato, gli spiega che da quel punto dipende tutto l’universo (canto XXVIII, versi 40-42):
«La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: “Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura”».
Questa visione puramente religioso-filosofica degli elementi “sì uniformi”, al confine dell’universo conosciuto, e del punto accecante, da cui “depende il cielo e tutta la natura”, ha un parallelo ai nostri tempi con il segnale di fondo cosmico a microonde (il cosiddetto “eco del Big Bang”) e con il momento stesso in cui si è verificato il Big Bang.
Secondo la moderna cosmologia, tutto ciò che esiste (tempo, spazio, materia e radiazione) proviene da un’esplosione primigenia seguita da un’espansione dello spazio cosmico tuttora in corso. Se oggi dalla Terra guardiamo le stelle lontane, stiamo guardando indietro nel tempo, poiché in realtà quelle che riceviamo sono delle immagini che sono state emesse nel passato e che, viaggiando alla velocità della luce, hanno impiegato del tempo ad arrivare fino a noi oggi.
Tuttavia, per quando lontano riusciamo a guardare, e quindi per quanto antiche possano essere le luci che osserviamo, c’è una sorta di sipario oltre il quale non riusciamo a vedere. Questo limite ultimo corrisponde all’istante della storia dell’universo in cui la caldissima e densa zuppa di opaca di particelle cariche e radiazione elettromagnetica, emersa subito dopo il Big Bang, raffreddandosi, ha permesso agli elettroni ed ai protoni di formare gli atomi neutri.
La luce ha potuto smettere così di rimbalzare tra le particelle cariche ed ha potuto propagarsi liberamente nello spazio finalmente trasparente. Questo lontano sipario testimonia quindi un preciso periodo del passato remoto dell’universo ed appare effettivamente, dalle misure compiute con apposite missioni spaziali, come un fondo di radiazione elettromagnetica estremamente uniforme. Al di là di quel sipario, se potessimo penetrarlo e da qualsiasi punto lo penetrassimo, troveremmo la primitiva fase iniziale convergente verso l’estremità dell’istante stesso del Big Bang, il punto che “che raggiava lume […] da cui depende il cielo e tutta la natura”.
Insomma, l’origine dell’universo è un istante, un punto, eppure ci circonda. La visione dantesca ci appare come un’affascinante intuizione poetica di quanto riusciti a capire solo nello scorso secolo sull’origine dell’universo.
A cura di Marco Luciani